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SULLE ORIGINI (DI UN FALSO PROBLEMA) di Giacomo Daniele Fragapane

Il “visibile” fotografico e la posizione del soggetto scopico (1)

pubblicato il 15 novembre 2009
Anche considerando l’origine della fotografia come un mero fatto tecnico – semplificazione di comodo che non rende conto di una enorme quantità di questioni – vediamo subito che la cronologia “ufficiale”, di norma istituita a partire da un piccolo gruppo di esperimenti come le prime prove fotografiche di Niépce, Talbot, Bayard, e più frequentemente a partire dalla relazione di Arago sul procedimento di Daguerre (1939), è un dato del tutto arbitrario, seppure funzionale a circoscrivere un territorio d’indagine storiografica. Accade lo stesso con la nascita del cinema, dove la paternità ufficiale dei fratelli Lumière (1895) è contraddetta da molte ricerche parallele (ad esempio quelle di Edison, dei fratelli Skladanowsky, di Muybridge, Eakins, Marey ecc.) e da un’infinità di tecniche e marchingegni che negli stessi anni, e anche in anni molto precedenti, procedevano nella medesima direzione. Da questo punto di vista, la questione dell’origine della fotografia si riduce a quella dell’origine del procedimento fotografico così come noi oggi lo conosciamo, cosa che in qualche modo ci pone di fronte a una sorta di cortocircuito teorico: riconosciamo una data d’inizio col senno del poi e senza considerare che l’inizio stesso è qualcosa di storicamente determinato, è l’effetto di tendenze che erano già nell’aria e che vanno ricercate in altri fenomeni e in altri territori. Come si sa, esistono numerosi studi – oggi soprattutto nell’area dei visual studies – che lavorano in questa direzione, rilevando i nessi tra la fotografia e le forme “primitive” di riproducibilità tecnica delle immagini (incisione, camera obscura ecc.) oppure indagando, con un più ampio respiro teorico, i rapporti concettuali tra il dispositivo fotografico moderno e il dispositivo prospettico rinascimentale. Alcuni lavori più recenti pongono invece maggiore attenzione alle componenti chimiche del processo di registrazione (2), ovvero a ciò che nella storia della fotografia, fino alla rivoluzione digitale, ha consentito di fissare un’immagine-traccia per mezzo della scrittura automatica della luce, individuando anche in questo caso fenomeni e linee concettuali che precedono, spesso di molto, la fase delle origini.
Ecco dunque un altro modo di impostare il problema dell’origine, che potremmo definire “genealogico” e che in sostanza consiste nell’indagare, al di là degli sviluppi specifici delle diverse tecniche fotografiche storiche, le motivazioni “profonde” – di ordine estetico, antropologico, sociologico, filosofico – e le linee di sviluppo di quei fenomeni che, retrospettivamente, si decide di considerare come antecedenti più o meno diretti della fotografia. (È ovvio che in questo caso molti dei problemi presi in esame trascendono lo “specifico” del mezzo e sconfinano invece in altri campi; il che può essere considerato un limite solo in un’ottica dogmaticamente storicista: il maggior vantaggio di un simile metodo è infatti proprio quello di porre problemi che altrimenti non sarebbero emersi).
L’identificazione, spesso anche a livello inconscio, tra fotografia e prospettiva rappresenta un vero e proprio tòpos della teoria fotografica. Laddove ad esempio Susan Sontag scrive che «nelle descrizioni dei fotografi, il fotografare è insieme una tecnica illimitata per appropriarsi del mondo oggettivo e un’espressione inevitabilmente solipsistica del singolo io» (3), è difficile non cogliere il richiamo, e perfino l’assonanza sintattica col fondamentale saggio sulla prospettiva di Erwin Panofsky (4). Un tòpos che sistematicamente (lo si evince con chiarezza nel passo appena citato ma anche in una straordinaria quantità di altri testi)(5) si manifesta in una forma scissa tra i due opposti paradigmi visuali – e concettuali – di un universo massimamente “aperto” al reale, percorribile, misurabile e conoscibile attraverso l’interfaccia del dispositivo ottico e, al contrario, di un universo tendenzialmente “virtuale”, “chiuso” su se stesso, luogo di proiezioni fantasmatiche che sembra riecheggiare il mito della caverna platonica. Si tratta di due modelli concettuali dello sguardo che implicano logiche speculari e complementari, così come le interfacce tecnologiche sviluppatesi in funzione di essi comportano altrettante concezioni spazio-temporali e configurazioni dei rapporti tra sguardo, rappresentazione e spettatore. Se in qualche modo entrambi i modelli sono in nuce nel dispositivo prospettico, vera e propria matrice concettuale dello sguardo occidentale moderno, essi sembrano entrare in un reciproco rapporto dialettico in concomitanza con la nascita della fotografia, momento in cui si scindono (è la tesi sviluppata da Peter Galassi) per poi tornare a fondersi nelle attuali tecnologie basate sulla realtà virtuale: sistema massimamente chiuso su se stesso, del tutto auto-referenziale ma, al tempo stesso, universo da percorrere, esplorare, modificare ed esaurire. Ad esempio, nella pratica dei videogame – palestra visuale delle nuove generazioni come, procedendo a ritroso, la televisione, il cinema e il romanzo lo sono stati per le precedenti – l’universo dell’immaginario si manifesta come un terreno astrattamente autosufficiente e al contempo concretamente praticabile. L’orizzonte dell’esperienza videoludica si attua dunque nel sistema circoscritto di un mondo simulato il cui esaurimento coincide con quello delle riserve di senso del sistema: esplorati tutti i luoghi, venute alla luce tutte le regole, raggiunti gli obiettivi, il sistema perde senso e, diciamo così, implode su se stesso. Entriamo dunque nel vivo di una simile scissione, e tentiamo di comprenderne meglio la logica.
Troviamo un buon esempio di tale concezione dicotomica nel noto saggio di Peter Galassi intitolato Prima della fotografia. Qui lo studioso americano analizza la rappresentazione fotografica del paesaggio ottocentesco come una pratica strettamente interconnessa con le sperimentazioni della pittura coeva e precedente. In particolare, il nesso “pragmatico” tra pittura e fotografia è individuato a partire dall’abbandono, da parte di molti pittori dell’epoca, di un utilizzo “rigido” e teatrale della prospettiva a favore di una maggior mobilità e flessibilità della cornice del quadro. (Galassi fa risalire questa cesura al graduale passaggio nella pratica pittorica dall’ébauche all’étude, dal bozzetto preparatorio allo studio dal vero) (6). In questa chiave il problema di “cosa sia” la fotografia degli esordi viene svincolato da ogni determinismo tecnologico, e diviene piuttosto una questione di regime scopico, qualcosa che riguarda il campo, ben più ampio e complesso, della formazione culturale delle prime forme moderne di rappresentazione visiva. Estendendo il paradigma concettuale proposto da Galassi al di là degli esempi presenti nel testo, e applicandolo “in blocco” ai primi decenni di esistenza della fotografia, sembra delinearsi una grossa dicotomia tra una fotografia che imita la pittura precedente – le prime manifestazioni del vedutismo fotografico (di cui le Excursions daguerriennes del 1840-44 rappresentano l’esempio più tipico), che riprendono i temi e gli schemi visuali dell’incisione traghettandoli verso il modello della “cartolina” – e una fotografia che dialoga con la pittura coeva, su cui Galassi si sofferma maggiormente, con puntuali riferimenti al milieu realista e impressionista, o che prosegue il cammino di pittori che utilizzavano la prospettiva in forme più sperimentali ed “esplorative” rispetto a quelle praticate nelle accademie – Vermeer e i fiamminghi, o i vedutisti settecenteschi, ad esempio, accomunati ai fotografi dall’utilizzo della camera obscura.
Ma l’analisi non riguarda solo l’ambito degli schemi e dei modelli rappresentativi. Essa ci offre uno strumento particolarmente utile per tornare ancora sul tema, centrale, dei processi interpretativi dell’universo contingente messi in atto dal discorso della fotografia, ovvero del rapporto tra rappresentazione e sguardo fotografico. Galassi si interroga innanzitutto su quali siano le determinazioni di base del dispositivo prospettico, rilevando come la sua forma concettuale derivi sostanzialmente da tre parametri o scelte preliminari:

Sin da quando Leon Battista Alberti pubblicò Della pittura nel 1435, l’immagine prospettica è stata definita come un piano che interseca la piramide visiva […]. A dispetto di tutte le ingegnose obiezioni possibili, la definizione di Alberti stabilisce che un’immagine prospettica, se costruita perfettamente e vista da un occhio che si trovi all’apice della piramide immaginaria, sarà come una finestra aperta sul soggetto. Partendo da questa definizione, qualsiasi immagine prospettica è implicitamente il prodotto di tre scelte fondamentali. 1. L’artista deve scegliere la disposizione del soggetto oppure (cosa praticamente equivalente) scegliere il momento in cui rappresentare un soggetto dato; 2. scegliere il punto di vista; 3. scegliere l’estensione della veduta, o, in altre parole, stabilire i confini dell’immagine. Queste tre scelte determinano la composizione di base del quadro (7).

La rappresentazione prospettica è dunque innanzitutto, prima che una forma di organizzazione del rappresentato, il prodotto della scelta, da parte dell’artista, di un momento, di un punto di vista e di una estensione del quadro in relazione al mondo visibile. Vi è, in germe, una concezione dello sguardo in quanto “comportamento” o atto performativo. Soprattutto dello sguardo fotografico, dal momento che il fine del saggio è in fondo quello di sostenere, con un rovesciamento dei nessi genealogici consuetamente riconosciuti, la “fotograficità” ante litteram di un certo tipo di visione prospettica. Collocazione nel tempo, disposizione nello spazio, distanza da ciò che è messo in quadro: queste tre coordinate tracciano già i limiti e le potenzialità di una visione che si delinea come un processo, intrinsecamente dialettico, di ermeneusi del reale. La dialettica della visione prospettica emerge così come una dicotomia del suo regime scopico. Secondo Galassi – ma abbiamo visto come una simile idea ricorra piuttosto frequentemente – il dispositivo prospettico è infatti scisso al suo interno, e rimanda a due opposte “strategie dell’occhio” che lo studioso esemplifica ricorrendo alla contrapposizione tra un modello sintetico, espresso nella sua forma più pura dalla Città ideale (Scuola di Piero della Francesca, c. 1470) e dalla pittura di Paolo Uccello, e un modello analitico, tipico di Degas e di tutto il realismo ottocentesco («Paolo Uccello procede da singole parti verso il tutto: opera una sintesi. Degas procede dal tutto verso un aspetto singolo: opera un’analisi») (8). In base ai possibili rapporti tra le «tre scelte interdipendenti» che strutturano lo sguardo prospettico, si producono dunque «due casi limite»: quello di «una sorta di palcoscenico dalle misure prestabilite» dove la griglia prospettica «è la chiave per stabilire il rapporto tra il bi- e il tridimensionale» – un modello, potremmo dire, fortemente cartesiano nella sua “scenograficità” solipsistica, fondato sulla struttura matematica e sulle componenti illusionistiche della spazialità prospettica – e quello opposto – decisamente più fenomenologico – in cui «il mondo è anzitutto accettato come un campo ininterrotto di potenziali immagini pittoriche. Dal punto di vista scelto, l’artista esplora questo campo con la piramide visiva, e dà vita al quadro scegliendo dove e quando fermarsi» (9). In questo secondo paradigma, l’aspetto performativo della visione assume evidentemente, in contrapposizione al primo, un ruolo determinante. Ma tale dialettica, che di fatto regola la forma del rapporto tra il punto di vista del soggetto e l’universo contingente a cui esso si relaziona, non va intesa in un senso assoluto:

Queste due concezioni diametralmente opposte della prospettiva hanno un significato storico. Gradualmente, nel corso dei secoli, il procedimento di costruzione logica di Paolo Uccello fu soppiantato dalla strategia di descrizione selettiva di Degas. In teoria, vi deve essere stato un punto in cui l’esperimento pittorico, deviando dalla norma rinascimentale, raggiunse uno stadio critico e una densità sufficiente a formare una nuova norma. Tuttavia, dal momento che la tradizione artistica si sviluppa lungo molteplici fronti con ritmi differenti […] questo punto non è facilmente localizzabile. Non è facile citare la data in cui il mondo, superando i confini dello studio, sfuggì al controllo dell’artista, che decise allora di svincolare la piramide visiva e maneggiarla liberamente alla ricerca del suo soggetto. Pure, l’invenzione della fotografia pone esattamente questo quesito storico (10).

La questione della storicità, e dunque della mutabilità del “soggetto scopico” (11) preme, come un sottotesto latente, in tutto il discorso di Galassi. La sua tesi suggerisce infatti in modo molto chiaro come la dicotomia di costrutti formali intrinseca nel regime scopico della prospettiva lineare – da cui quello della fotografia emergerebbe gradualmente come una costola – implichi a sua volta un processo storico di trasformazione nelle forme di costruzione culturale del soggetto. Un processo – che qui abbiamo sintetizzato con la metafora di una dialettica tra un soggetto cartesiano e un soggetto fenomenologico – mai del tutto risolto, dal momento che i relativi regimi visuali emergerebbero solo come «casi limite» in un percorso che «si sviluppa su molteplici fronti con ritmi differenti». In ogni caso, quello che è in gioco è innanzitutto la dimensione procedurale del rapporto tra il soggetto scopico e il suo campo di esperienza del reale: rapporto che può attuarsi secondo prassi produttive più o meno orientate da logiche di tipo sintetico o analitico. Ciò è vero specialmente se si considera che ogni processo di costruzione culturale di una rappresentazione della “realtà” (processo evidentemente speculare alle relative procedure entro cui il soggetto definisce la sua identità scopica) non è mai astraibile dalle condizioni contingenti, più o meno “solipsistiche” o “intersoggettive”, in cui prende vita.
Dunque, più che alle qualità intrinseche della rappresentazione, è alla natura di tale rapporto (12) che occorre porre attenzione. In tal senso potremmo qui ipotizzare una contrapposizione tra regimi visuali, per così dire, a circuito chiuso, dove le condizioni di visibilità – o di proliferazione del visibile – dipendono da meccanismi formali che sono sempre postulati e risolti all’interno del proprio orizzonte discorsivo iniziale (anche senza andare nel terreno della virtualità e delle nuove tecnologie digitali: si pensi ad esempio ai mondi “impossibili” eppure perfettamente coerenti di Escher, e all’idea che vi emerge di una visione modulata all’infinito dai suoi stessi presupposti logico-matematici) e regimi a circuito aperto, condizionati a monte dalla necessità di un potenziale dialettico “esterno” cui ricorrere, pena l’esaurimento della loro capacità di generare senso.
Il regime scopico della fotografia – specie di quella più sperimentale delle origini, dove si cerca principalmente di scoprire ed esplorare le potenzialità del nuovo mezzo, e poi della fase aurea della “classicità”, dove invece si tratta di esplorare l’universo visibile attraverso un mezzo ormai “sicuro di sé” e stabilizzatosi su un assetto istituzionale – rientra pienamente nel secondo paradigma, che declina nella forma tipicamente modernista di una costitutiva apertura al nuovo in tutte la sue declinazioni (altro, diverso, lontano, esotico, volgare, primitivo ecc.). Così – ancora un paradosso sembra guidarci al cuore del funzionamento discorsivo della fotografia – la natura dialettica del mezzo si trova a essere intrinsecamente legata, da un lato, alla perdita di potenziale semantico dei suoi oggetti referenziali (che la fotografia, in tutte le sue fasi di sviluppo, sembra dover fagocitare ed esaurire per potersi evolvere), dall’altro, all’iscrizione ideologica delle sue pratiche in un movimento di continua alternanza tra obsolescenza e trasformazione. Rientrano in questa prospettiva tutte le tensioni enciclopediche e accumulatorie verso forme organizzate di esotismo, orientalismo, documentarismo, o anche, in qualche caso, di puro sperimentalismo visuale, ovvero quelle “avventure dello sguardo” che legano la costituzione di un corpus iconografico a un movimento di progressiva scoperta (e ipostatizzazione) del “nuovo” – e che connotano tale movimento come un processo volto alla definizione e alla stabilizzazione di un punto di vista dominante e di una identità culturale condivisa (13).
Questa dialettica tra una logica visuale sintetica e una logica visuale analitica, che per molti versi si ripresenta oggi, invertendo i suoi poli e le sue tensioni dinamiche, nel passaggio dall’era analogica all’era digitale (14), segna così l’avvicendarsi tra due visioni del mondo: una centripeta, l’altra centrifuga; una propria dell’universo aristocratico pre-industriale e dei suoi rigidi e statici schemi gerarchici, l’altra del nascente ordine borghese con la sua vocazione a espandersi territorialmente, a colonizzare culturalmente e – per quanto più concerne il nostro discorso – a esplorare in modo sistematico nuovi territori visuali, ri-centrando (15) ogni volta l’ordine del visibile, spostandolo di continuo verso nuovi equilibri percettivi e nuove configurazioni discorsive. Così potremmo dire che nella storia della fotografia il graduale esaurimento delle riserve di immaginario determina le diverse fasi e modalità attraverso cui il soggetto scopico esplora il mondo, e soprattutto attraverso cui definisce le proprie credenze epistemiche. Tutti i grandi momenti di sviluppo della fotografia sono in tal senso descrivibili come un susseguirsi di scoperte visive: dalle imprese pionieristiche del XIX secolo – in cui per la prima volta lo sguardo occidentale indaga i rapporti tra arte e scienza, si addentra nei campi del microscopico e dell’astronomico, sperimenta nuovi approcci alla rappresentazione del paesaggio e del soggetto umano, esplora la dimensione del movimento, della velocità, della visione dall’alto, della luce artificiale ecc. – fino alle rotture radicali delle avanguardie, all’ideale di una purezza “diretta” del gesto fotografico e alla scoperta del “fattore umano” nella nuova fotografia documentarista novecentesca, all’invenzione dell’“evento fotogiornalistico” e dell’«istante decisivo» (per restare ai grandi miti della prima metà del secolo). Ogni momento è segnato, nella sua fase iniziale, dalla folgorante scoperta di un nuovo universo da esplorare, oppure, quando le riserve di soggetti cominciano a scarseggiare, dalla riscoperta di antichi temi cui lo sguardo del fotografo riesce a conferire un nuovo senso. Ogni universo è poi sistematicamente saccheggiato da schiere di fotografi, fino al suo esaurimento o irrigidimento in un atlante di stereotipi che a loro volta, a seconda dei casi, progressivamente scompaiono o divengono “di massa”. Esaurito il potenziale dialettico, la capacità di produrre nuovo senso a partire da quel peculiare genere di situazioni (di tipi umani, di oggetti, di luoghi, di eventi) si va insomma gradualmente a esaurire – o a istituzionalizzare – anche la retorica discorsiva che regola il modello di spettatore, e muta la valenza euristica e sociale delle immagini. Mi sembra che questa dinamica spieghi bene molti “spostamenti” di tecniche, soggetti e schemi rappresentativi dal milieu della produzione artistica “alta” a quello della fotografia amatoriale (e viceversa), o dal medio professionismo della fotografia “di genere” al mainstream dell’anonimato fotografico più deteriore e diffuso. Simili trasformazioni avvengono insomma in un terreno di intersezione tra la fenomenologia dei processi di costruzione del dato visivo, che segue percorsi relativamente invarianti, e le condizioni contingenti (storiche, culturali, politiche ecc.) in cui essi si attivano come dispositivi di negoziazione simbolica tra diverse istanze, legate in ultima analisi al ruolo che una data cultura, in una data era, attribuisce allo sguardo e alla funzione che assegna alle sue protesi tecnologiche.
Lo schema concettuale tripartito utilizzato da Francesco Faeta per «scomporre il campo di attività che convenzionalmente indichiamo con il termine “osservazione”» ci offre in tal senso uno strumento prezioso per la nostra analisi dei rapporti tra sguardo fotografico e dispositivo prospettico. L’articolazione in tre “stadi” del processo visivo, dalla fase puramente biologica del guardare, in cui, primariamente, «le informazioni vengono percepite dall’occhio […] a prescindere da un qualsiasi embrione di riconoscimento culturale», alla fase del vedere, in cui «le informazioni vengono riconosciute e immesse in reti di significato culturale», fino alla fase dell’osservare, in cui «le informazioni visive così elaborate in forma di conoscenza sono inserite all’interno di una prassi continua e finalizzata», ci indica infatti con estrema precisione altrettanti gradi di interazione tra lo sguardo della fotografia, nella sua fenomenologia di costrutto culturale, e il dispositivo tecnologico di “prospettivizzazione” del reale su cui esso si fonda. Se infatti è indubbio che già al primo livello, puramente percettivo e pre-culturale (è l’ambito studiato dai teorici della gestalt), il dispositivo fotografico condiziona a monte e traduce il dato visivo in qualcosa di profondamente diverso da come esso si presenta all’occhio umano – come tutti sanno Benjamin ha coniato la definizione di inconscio ottico per descrivere questo genere di fenomeni – è però soprattutto sulle altre due fasi che esso va a incidere, definendo (secondo livello, propriamente fenomenologico) «processi diversificati di conoscenza» e di «riconoscimento»; «l’elaborazione di un orizzonte sincronico di relazione, per cui l’oggetto acquista senso in rapporto al sistema spaziale, nel quale è inserito, e ad altri oggetti»; e «infine, il riconoscimento di una dimensione diacronica, per la quale l’oggetto si pone in relazione con il tempo e appare quale sintesi operante delle sue esistenze passate e future, di quanto cioè non possiamo percepire in toto, ma prefiguriamo con il sostegno di conoscenze ideologiche e archetipiche», nonché (terzo livello, in qualche modo assimilabile al piano delle forme simboliche di Cassirer) elaborando le informazioni visive «in forma di conoscenza» e inserendole «all’interno di una prassi continua e finalizzata», «di un campo di interazione sociale storicamente definito […], al fine di produrre rappresentazioni della realtà». Se dunque «osservare significa, in sintesi, vedere in situazione e per un fine (culturale, sociale e politico)» (16), scegliere di osservare mediante un dato dispositivo significa già situarsi in un campo di senso finalisticamente orientato, accettandone implicitamente i presupposti semantici e le articolazioni cognitive.
L’evoluzione di un dispositivo – di un’interfaccia visuale: nel nostro caso della “matrice” prospettica in relazione alla sua capacità di modellizzare un “visibile” di tipo fotografico – non è dunque solo un fatto tecnologico, ma è il risultato di profonde trasformazione culturali. La questione chiama innanzitutto in causa due nozioni interrelate: quella di “spettatore” e quella di “realismo”. Tornando ancora alle parole di Galassi, vediamo infatti che ai due paradigmi visuali postulati dal dispositivo prospettico corrispondono due relativi modelli di spettatore e di “realtà”: «Una riprova dei cambiamenti avvenuti si può ottenere trascurando l’artista a vantaggio dello spettatore. Chi osserva non trova posto nel dipinto di Paolo Uccello, mentre è virtualmente partecipe del quadro di Degas» (17). Ciò accade esattamente nella misura in cui l’atto del vedere, oltre che un gesto passivamente ricettivo, è sempre anche – più o meno, a secondo dei casi e dei regimi scopici messi in gioco – un’operazione costruttiva e finalizzante, che “mette ordine” nel flusso delle percezioni contingenti orientandone i dati secondo schemi conoscitivi (simbolici, epistemologici, ideologici ecc.) che rispondono alla nozione di realtà di chi guarda e alla sua idea di “come” si debba guardare. In questo senso, ogni trasformazione delle convenzioni rappresentative presuppone una trasformazione del concetto di realtà e degli assetti sociali sottesi: «Nella storia della prospettiva, […] ogni nuova norma di logica pittorica, per il fatto stesso di scalzare una convenzione esistente, assume per i contemporanei il carattere di una conquista realistica. Il risultato, tuttavia, non è una fuga dalla convenzione, ma l’insediarsi di una convenzione nuova» (18). Lo spostamento progressivo del concetto di realtà, o dei diversi utilizzi della convenzione realistica – intesa come un dispositivo di teatralizzazione della nozione di “reale” che si vuole condividere nel processo comunicativo – è dunque una funzione diretta di tutta una serie di ricentramenti (19) linguistici e tecnologici (e di conseguenza, in senso lato, qualcosa che ha a che fare con l’instaurazione di nuovi equilibri di potere e nuovi modelli culturali).
Così, per spostare, a mo’ di conclusione provvisoria, il discorso sul piano delle trasformazioni che stiamo attualmente vivendo, potremmo dire che per quanto concerne la fotografia la fine dell’era analogica è di fatto il prodotto dei nuovi assetti sociali e culturali del mondo globalizzato, di cui le immagini virtuali, con la loro indeterminatezza e polivalenza pragmatica, con il loro potenziale anestetico e allucinatorio, esprimono in pieno l’ambiguità e la complessità. Se infatti «il divario tra schizzo e opera finita» nel XIX secolo «annuncia la lotta imminente fra un’arte retorica di vecchia tradizione e un’arte dedita a percezioni individuali della realtà» (20), un’arte dove «le opere paiono aver acquistato forma attraverso l’occhio, non attraverso la mente» (21), quello attuale tra una visione inquadrata e una visione costruita, e tra i relativi modelli di spettatore (uno tanto passivo in rapporto ai concreti processi dello sguardo quanto personalmente coinvolto nelle dinamiche interpretative e intenzionali sottese; l’altro tanto attivo sul versante puramente pragmatico della visione quanto “programmato” e manipolabile in relazione ai suoi presupposti ideologici), sancisce drasticamente la sedimentazione del potenziale di ermeneusi del reale del discorso fotografico in schemi sempre più rigidamente controllati e inscritti in rituali sociali, produttivi, estetici di massa.
Alla massificazione della percezione visiva corrisponde così la smaterializzazione del segno iconico e degli strumenti di produzione di immagini – come rileva Lev Manovich, il paradigma è quello del passaggio dall’hardware al software –, ma soprattutto l’imporsi di veri e propri “standard di visione”, di configurazioni predeterminate corrispondenti a precise sezioni di mercato (dal target elitario del mercato dell’arte o dell’alta moda a quello iper-mainstream della Playstation e della Real-TV) suddivise per status sociale o economico.

NOTE
(1) Dedico questo scritto a Paolo Gioli, il quale (tramite Paolo Vampa, che ringrazio con affetto) ha gentilmente concesso la riproduzione delle sue fotografie in questa sede. L’omaggio non è occasionale: considero infatti l’opera di Gioli uno straordinario terreno di riflessione teorico-filosofica sul problema e sui paradossi delle origini della fotografia.

(2) Si veda ad esempio R. Signorini, Alle origini del fotografico, Bologna 2007.

(3) S. Sontag, Sulla fotografia (1973), Trad. it, Torino 1978, p. 105.

(4) Si pensi al celebre passo del paragrafo conclusivo: «la storia della prospettiva può essere concepita ad un tempo come un trionfo del senso della realtà distanziante e obiettivante, oppure come un trionfo della volontà di potenza dell’uomo che tende ad annullare ogni distanza; sia come un consolidamento e una sistematizzazione del mondo esterno, sia come un ampliamento della sfera dell’io». Cfr. E. Panofsky, La prospettiva “come forma simbolica” (1925), trad. it., Milano 2001, p. 72.

(5) Inutile tentare di raccoglierne una casistica. Jacques Aumont, ricapitolando i termini di un lungo dibattito intorno alla “duplicità” dei regimi visuali sottesa al dispositivo prospettico, riprende da Kracauer, a scopo esplicativo, la contrapposizione tra una tendenza «prospettivista» e una tendenza «esploratrice». Cfr. J. Aumont, L’immagine (1990), trad. it., Torino 2007, cap. 3.

(6) Cfr. P. Galassi, Prima della fotografia (1981), trad. it., Torino 1989, in part. pp. 27-38.

(7) P. Galassi, Prima della fotografia, cit., pp. 22-23.

(8) Ivi, p. 24.

(9) Ivi, p. 23.

(10) Ivi, p. 24.

(11) Impossibile in questa sede approfondire in forma anche solo vagamente esaustiva un nodo concettuale che si estende dalle teorie della visione sviluppate nell’ambito del pensiero fenomenologico, fino alla psicanalisi lacaniana, alla “critica ideologica” post-strutturalista e ai moderni visual studies. In termini del tutto generici, la nozione di “regime scopico” sta a indicare l’insieme delle funzioni, degli atteggiamenti, delle credenze, degli schemi cognitivi che una data cultura assegna alla vista e all’atto del vedere. La nozione di “soggetto scopico” riguarda dunque tutto quel mutevole e assai articolato insieme di strutture culturali che presiedono all’organizzazione dello sguardo del soggetto in una data epoca e in un dato contesto culturale. Per una complessa analisi dei rapporti tra le teorie della visione fotografica e la «crisi dell’antico regime scopico» basato sul modello prospettico cartesiano cfr. Martin Jay, Downcast Eyes, Berkeley and Los Angeles 1994, pp. 124-146.

(12) È questo l’ambito di riflessione – spesso indicato con formule un po’ riduttive (da cui probabilmente anche il presente scritto non è immune) del tipo: il problema dell’“intersoggettività” o, più di recente, dello “sguardo dell’altro” – in cui il pensiero fenomenologico tocca più da vicino alcuni temi propri della psicoanalisi lacaniana. In entrambi i casi il dispositivo prospettico (e la sottesa ideologia, diciamo così, geometrale-cartesiana) funge da vero e proprio asse di congiunzione tra ciò che concerne la definizione della nozione di “soggetto” e ciò che investe la capacità dello sguardo – e dell’intreccio tra lo sguardo proprio e lo sguardo altrui – di modellizzare un’immagine del mondo e, con essa, una specifica forma del rapporto tra soggettività e alterità. Si veda, ad esempio, la singolare convergenza di temi tra i seguenti passi: «Se ora consideriamo l’altra certezza della fede percettiva, e cioè quella di accedere al mondo stesso che gli altri percepiscono, ecco come essa si traduce in una filosofia veramente negativistica. Ciò che io vedo non è mio nel senso di un mondo privato. Il tavolo è ormai il tavolo; anche le vedute prospettiche che io ne ho, e che sono legate alla posizione del mio corpo, fanno parte dell’essere e non di me stesso; anche gli aspetti del tavolo che sono legati alla mia costituzione psicofisica – il suo colore singolare, se io sono daltonico e il tavolo dipinto in rosso – fanno ancora parte del sistema del mondo. Ciò che nella mia percezione è mio, sono le sue lacune, ed esse non sarebbero lacune se la cosa stessa, dietro di esse, non le designasse come tali, cosicché, in definitiva, per costituire la faccia “soggettiva” della percezione rimane solo il raddoppiamento secondario della cosa, che si esprime dicendo che noi la vediamo così come è. Prendiamo, ora, un altro uomo davanti a me che “guarda” ciò che io chiamo il “tavolo”. Fra il tavolo del mio campo, che non è uno dei miei pensieri, ma il tavolo stesso, e questo corpo, questo sguardo, si intreccia un rapporto che non è nessuno dei due rapporti che una analisi solipsistica fornisce […]. La percezione che gli altri hanno del mondo mi lascia sempre l’impressione di una palpazione cieca». Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (1964), Trad. it., Milano 2003, pp. 81-82. «Io non sono semplicemente quell’essere puntiforme che si orienta rispetto al punto geometrale da dove è colta la prospettiva. Indubbiamente, in fondo al mio occhio si dipinge il quadro. Il quadro, certo, è nel mio occhio. Ma io, io sono nel quadro […]. Qui c’è qualcosa che fa intervenire quello che è eliso nella relazione geometrale – la profondità di campo, con tutto ciò che essa presenta di ambiguo, di variabile, di non padroneggiato da me. È piuttosto lei che mi prende, che mi sollecita in ogni momento e che fa del paesaggio qualcos’altro rispetto a una prospettiva». J. Lacan, Il seminario. Libro XI (1973), Trad. it., Torino 2003, pp. 94-95.

(13) In questa prospettiva, ad esempio, Faeta esamina il ruolo della fotografia in rapporto alla questione meridionale e alla definizione dell’identità culturale italiana moderna. Cfr. F. Faeta, Ripensare Melissa oggi, in Id., Questioni italiane, Torino 2005.

(14) Volendo abbozzare, a grandi linee, un modello concettuale delle trasformazioni in gioco nell’avvicendarsi dei dispositivi tecnologici della fotografia, possiamo affermare che il paradigma dialettico ed “espansivo” della visione fotografica, trionfante in tutto il secolo dell’immagine analogica – per usare le parole di Pierre Sorlin – giunge alla sua piena maturazione allo scadere della prima metà del Novecento, allorché ha inizio quel graduale processo di “implosione” che si risolverà, nel giro di circa un trentennio, con l’avvento delle immagini di sintesi: uno “scarto genealogico” che rappresenta anche, per molti versi, un paradossale ritorno alle origini, a quel paradigma scopico «distanziante e obiettivante» (Panofsky) che precede la nascita della fotografia, ponendone le premesse fondamentali. (Questa, qui riassunta in modo grossolano, è una delle tesi di fondo del mio libro Punto di fuga. Il realismo fotografico e l’immagine digitale, Roma 2005).

(15) Faccio qui riferimento a una tesi formulata da Kockelkoren, secondo cui «Quando nuove tecnologie sono rese pubbliche per la prima volta, inizia un periodo di decentramento: gli utenti non sanno cosa fare della tecnologia e non immaginano a quale mondo essa dia l’accesso. Ma non passa molto tempo che si mettono in moto strategie di ricentramento per familiarizzare la tecnologia in questione». Cfr. P. Kockelkoren, Technology: Art, Fairground and Theatre, Rotterdam 2003, p. 14.

(16) Tutte le citazioni sono tratte da F. Faeta, Strategie dell’occhio, in Id., Strategie dell’occhio, Milano 2003, pp. 17-19. Ultimo corsivo mio.

(17) P. Galassi, Prima della fotografia, cit., p. 27. Aggiungiamo che a un simile cambiamento si deve probabilmente far risalire anche una nuova concezione della “materia” delle icone, che da semplice supporto di un modello ideale superiore, assurge al ruolo di vero e proprio cardine della logica visuale: tutte le teorie che hanno posto nell’indexicalità il fulcro della semiosi fotografica poggiano evidentemente su questo slittamento da un ordine ideale (che riferisce concettualmente la sostanza percettiva dell’immagine a un principio intelligibile in grado in qualche modo di trascenderla) a un ordine sensoriale.

(18) Ivi, p. 28.

(19) Le pagine iniziali del saggio di Galassi sono dedicate alla contestazione di una nota tesi di Heinrich Schwartz, incentrata sull’idea di una affinità tecnologica tra il mezzo fotografico e alcune tecniche pittoriche precedenti; tesi che lo studioso americano ribalta, suggerendo che le radici dello sguardo fotografico non siano da cercare tanto nel terreno delle cosiddette tecniche pre-fotografiche, ma in una certa attitudine a osservare la realtà che sarebbe emersa nella prassi artistica a prescindere da esse. I due studi ci mostrano in tal senso due modi opposti di affrontare la questione da cui ha preso le mosse questo scritto: quella dell’origine di una data forma di rappresentazione. La tesi di Kockelkoren cui abbiamo precedentemente accennato (vedi nota 14) si colloca in qualche modo a metà tra queste due posizioni, affermando sostanzialmente che ogni nuova tecnica opera un decentramento del regime percettivo dominante e parallelamente innesca una fase di ricentramento in cui sorgono e si assestano nuovi linguaggi. In questa prospettiva i due poli tecnica/linguaggio si avvicendano e si intrecciano in continuazione: l’evoluzione tecnologica produce nuove forme di visione e queste orientano e specializzano il cammino della tecnica verso forme funzionali alle esigenze di una data epoca, cultura, ideologia ecc. Questa dinamica è particolarmente riconoscibile, a mio avviso, soprattutto nei settori più mainstream della fotografia e del cinema contemporanei. Dove infatti gli investimenti economici (perlopiù in tecnologia) sono maggiori, e la necessità di un costante rinnovamento del mercato (legato in buona parte al fascino di un realismo sempre più coinvolgente e spettacolare) è più impellente, l’intreccio tra tecnica e linguaggio si fa palpabile: l’esigenza mimetica innesca il perfezionamento tecnologico e, parallelamente, le nuove potenzialità tecnologiche aprono la strada a nuove forme di rappresentazione.

(20) Peter Galassi, Prima della fotografia, cit., p. 37, corsivo mio.

(21) Ivi, p. 43.

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