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SU GIOLI E LA NATURA DELLA FOTOGRAFIA di Giacomo Daniele Fragapane

Breve brano estratto dal testo critico pubblicato in Paolo Gioli Naturæ

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Senza titolo, Polaroid 50x60 trasferita su carta da disegno, 1988

È evidente come molte fotografie di Gioli chiedano di essere osservate come dei reperti. Non solo, però, per via del fatto che nella gran parte dei casi sono state realizzate con tecniche e dispositivi arcaici: con camere ottiche e stenopeiche di fattura artigianale; con cineprese utilizzate alla stregua di laboratori per stampare i negativi, come accadeva alle origini del cinema nei primi film dei Lumière; o più semplicemente mediante il contatto “erotico” tra la superficie sensibile e l’oggetto, come nelle prime calotipie di Fox Talbot o nei fotogrammi dei Dadaisti. Ma anche, anzi soprattutto, per via delle logiche scopiche che attivano, ovvero a causa delle modalità di visione che richiedono e consentono a chi le osserva. Sono fotografie spesso pensate come reperti, in quanto reperti.
Ma cosa vuol dire pensare un oggetto fotografico come un reperto? (Un reperto è principalmente un oggetto trovato anche se “costruito”, in senso materiale o mentale). È forse il caso di soffermarci su come esso – o un ciclo che ne raggruppa un certo numero – è stato prodotto: sulla pragmatica implicita delle sue operazioni, manuali e mentali, e su come tali operazioni si leghino a idee relative alla coscienza e alla memoria, all’esperienza e all’azione. Vediamo dunque come Gioli descrive le fasi – in realtà considerandole un solo nodo di pensieri e operazioni – della realizzazione del ciclo Naturæ. Riporto qui le sue risposte a due mie domande concernenti “il genere di operazioni tecniche e procedurali compiute a livello di preparazione e allestimento della scena; di gestione dell’apparecchiatura fotografica; di trattamento successivo allo scatto”:

Non c’è niente da elencare. C’è una figura nuda al muro in piedi sotto a un unico colpo di piccolo flash manuale (da fotoamatori). E non attuo alcuno scatto da molti anni ma levo semplicemente il tappo dell’obbiettivo della mia camera ottica 50x60 autocostruita.

Alla mia domanda sul senso della “ripetizione di una medesima postura – sia visuale che prossemica, relativa al soggetto ripreso – nell’arco dell’intero lavoro”, e se avesse “sperimentato soluzioni diverse per poi scartarle”, Gioli risponde così:

No, neanche una. La soluzione è quella. Quando si concepisce si scarta mentalmente. Perché nella pittura si può cancellare ecc. ma nella fotografia devi selezionare molto prima e partire da una idea precisa. Dunque niente di improvvisato. Tanto più che l’elemento pittorico va a consumarsi sull’immagine pre-esistente con un arduo aggancio pittorico a posteriori che potrebbe far saltare tutto il faticoso lavoro fotografico e compromettere l’opera. Non è come lavorare su un piano sgombro e partire da zero (che poi non è mai zero perchè il bianco è già una parte della componente pittorica). Per cui si interviene su una cosa che potrebbe essere già un’opera completa e riuscita. Subentrare con la pittura potrebbe essere creativamente suicida.

L’idea di “ripetizione” è inoltre rifiutata, a vantaggio del concetto di “prolungamento”, anche per quanto concerne i rapporti tra i due cicli delle Naturæ e delle Vessazioni. Alla mia osservazione relativa al fatto che “in entrambi c’è la ripetizione di un medesimo gesto visivo che isola l’oggetto fotografico e definisce preliminarmente la sua visibilità; in entrambi vi è una sorta di misurazione o schedatura del soggetto, come nelle pratiche della fotografia positivista; entrambe implicano inoltre una forte partecipazione (o quantomeno disponibilità) del soggetto osservato rispetto all’atto fotografico”, Gioli risponde che tra essi «non c’è ripetizione ma prolungamento. Fa parte della stessa concezione della visione, uno spostamento, come una vessazione erotica capovolta!».

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Natura, Polaroid 50x60 e acrilico, 2009

L’opera è dunque un reperto anzitutto perché non è pensata come un artefatto, un oggetto composito, ma come la traccia di un processo mentale. Continuo, polimorfo, circolare, prolungato nel tempo. Ogni fotografia di Gioli è l’impronta di un pensiero di Gioli. Paradossalmente, essa non sembra fatta per essere “usata” nella contemporaneità, per dialogare ed esaurirsi con essa; ma per restare, per essere conservata come un feticcio, un oggetto alchemico gravido di misteriosi enigmi. (Per una strana macchinazione del destino, del resto, l’opera di Gioli tende a nascondersi nelle collezioni private e negli archivi dei musei, perlopiù stranieri, piuttosto che mostrarsi in spazi espositivi più accessibili al pubblico).
Questo aspetto non è solo un dato contingente, ma trova riscontro nella stessa concezione dell’atto fotografico. Ciò che sul versante della mimesis, della rappresentazione, della “messa in scena”, appare come molteplice e stratificato, sul versante dell’atto fotografico è inteso invece come un solo gesto: un taglio netto nel flusso continuo della ricerca estetica e dell’elaborazione concettuale della visione. Un reperto è ciò che resta di un processo che è nell’opera ma si è già consumato e preme per trovare nuove direzioni; che è già oltre l’opera. Questo spiega anche il senso della continua “ripetizione”, nella fotografia di Gioli, di soluzioni al tempo stesso molto simili e molto differenti, nell’arco di cicli creativi della durata talvolta decennale. È il caso, ad esempio, dei Nudi telati (1979), delle Autoanatomie (1987) e delle Maschere (1988-1990), cicli la cui spinta vitale non si esaurisce nel tempo, riverberandosi evidentemente anche nelle odierne Naturæ e Vessazioni, in una sorta di «eterno ritorno dell’identico».

Per l'articolo completo rimandiamo a Naturæ.

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