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FOTOGRAFARE LA PAURA di Fabio Piccini

Con l’avventura di Serena Salvadori, continua la serie di approfondimenti sulla foto-terapia inziati su aroundphotography.it lo scorso novembre...

pubblicato il 23 febbraio 2011
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Serena è una donna minuta. Dagli occhi scuri, curiosi e intensi. A un primo sguardo sembra fragile, poi timida, e solo dopo appare la sua forza. Nata a Roma e cresciuta a Trieste, ha studiato grafica pubblicitaria e fotografia all’ISIA di Urbino. Dopo la laurea si è trasferita prima a Madrid (per un master in fotografia) e poi a Barcellona, dove attualmente vive e lavora.
Ed è proprio a Barcellona che Serena entra in contatto per la prima volta con l’opera di Jo Spence, visita la personale postuma allestita al MOCBA nel 2007 e scopre così il mondo della foto-terapia. Ne rimane incuriosita, stupita e affascinata e, quasi impercettibilmente, trasformata. Dopo quell’incontro, qualcosa comincia infatti a crescere dentro di lei, dapprima in maniera assolutamente inconsapevole e casuale poi, piano piano, mettendo radici e facendosi spazio nella parte creativa della sua mente.
Passano due anni e, nel 2009, a Serena vengono diagnosticate alcune anomalie ginecologiche che ben presto si caratterizzano come causate dalla pressione pelvica di un grosso fibroma (un tumore benigno, ma in fase di rapida crescita), che si fa spazio nel suo ventre e comincia ad erodere i suoi tessuti interni causandole continue metrorragie. Una serie di consulenze e di brevi ricoveri non fanno che accrescere la sua angoscia e la paura di avere dentro un corpo estraneo che la stia divorando. I medici le consigliano diverse soluzioni, ma l’unica che promette di essere definitiva è anche la più radicale, ossia intervenire chirurgicamente asportando una parte dell’utero per rimuovere il fibroma e quella parte di organo ormai invasa da quest’ultimo.
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E’ una decisione difficile e da prendersi alla svelta, sotto la spada di Damocle di quella oscura massa neoplastica che, con la sua crescita tumultuosa, minaccia in ogni momento di potersi trasformare in qualcosa di peggio. Non c’è tanto tempo, e c’è tanta paura. E’ a questo punto che quel seme che le era germogliato dentro dopo l’incontro con l’opera di Jo Spence, finalmente dà il suo frutto e Serena capisce che forse l’unico modo per affrontare la paura dell’ignoto e darsi una rassicurante sensazione di controllo sul suo corpo impazzito potrebbe essere proprio fare quello che fece la Spence: fotografarsi; così decide di usare la macchina fotografica per affrontare la paura.
Non sa bene da dove partire, o che cosa fotografare, ma sente che il farlo le dà sollievo e lenisce la sua angoscia. Inizia allora a documentare sé stessa e la propria odissea. Quando decide di operarsi ormai ha già stabilito che intende documentare anche il travaglio del proprio intervento nello stesso modo in cui ne ha documentati i prodromi.
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I medici e lo staff ospedaliero di Trieste, dove avviene l’intervento, sono comprensibilmente stupiti e imbarazzati, ma del resto non è la prima volta che vedono una telecamera in sala operatoria, nei parti è infatti ormai una regola, e così, intuendone la motivazione e la finalità, decidono di stare al gioco. Del resto anche Serena affronta l’intervento alla guisa di un parto, deve cioè far uscire dal suo corpo una forma generativa che le è nata e cresciuta dentro e fa ormai parte di lei, e proprio per questo sente che deve trovare un modo per dare un senso a quanto sta accadendo in modo da collegarlo al suo percorso esistenziale e creativo.
Accudita dalla madre e dalla sua compagna non smette di fotografare finché l’anestetico non si diffonde nel suo sistema nervoso inducendole il sonno. E dal sonno si risveglia nuovamente con il desiderio della sua “medicina”.
Il postoperatorio e la convalescenza vengono documentati con lo stesso sguardo esploratore e cauto come alla ricerca di quel che resta del proprio corpo dopo che mani aliene ne hanno frugate le viscere. Quasi un tentativo di rimettere in ordine la propria interiorità attraverso l’esteriorità.
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Alla fine soltanto una cicatrice che le disegna l’inguine e questa serie di scatti rimangono a documentare l’avventura di Serena come un emblematico esempio di uso terapeutico della fotografia. Il progetto dal nome: I Want To Be a Mum è stato premiato al 9° FOTOfestiwal di Lodz, in Polonia. Un esempio da ricordare per tutte quelle situazioni in cui sentiate il bisogno di riappropriarvi dell’immagine del vostro corpo violato dalla malattia. La fotografia permette infatti di creare immagini che siamo in grado di utilizzare per aggiornare, o sostituire, sembianze precedentemente interiorizzate. Questo si verifica perché l’immagine è il linguaggio di base della mente; non a caso si parla dell’immaginario come del contenitore delle fantasie, delle memorie, dei progetti, dei sogni. Una sterminata raccolta di immagini mentali da cui il cervello attinge ogni volta che deve crearsi (o ri-crearsi) la raffigurazione di un concetto, o di un’idea.
Pensare di utilizzare la fotografia a scopi riabilitativi, per tutti quei pazienti che subiscono interventi chirurgici distruttivi (come fece Jo Spence con la propria mastectomia), dovrebbe dunque apparire logico, purtroppo questo non accade. Se allora siete alla ricerca di un’idea per un progetto originale da proporre a una struttura sanitaria pubblica, o privata, eccovene uno…
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Potete trovare il portfolio di Serena nel suo sito o alternativamente sul blog
Per una panoramica dell’opera di Jo Spence e del suo percorso foto-terapeutico consiglio infine: Spence J. (1988) Putting Myself In The Picture. Real Comet Press, Seattle. Il libro è di difficile reperibilità ma su Amazon se ne trovano copie usate in ottime condizioni.

All images © Serena Salvadori

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