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LA CELLULOIDE E IL MARMO: ERIC ROHMER di Marco Grosoli

All’inizio di questo 2010 moriva Eric Rohmer, importante cineasta, critico e saggista. Vogliamo ricordarlo con questo articolo che ripercorre sinteticamente le tappe fondamentali del suo lavoro

pubblicato il 16 marzo 2010
“Cinema, arte dello spazio”. Mai titolo di articolo fu più profetico. Lo scrisse nel 1948 il giovane (28 anni) Eric Rohmer per la “Revue du Cinéma” e fu il suo primo contributo critico importante. Ne seguirono molti, soprattutto negli storici “Cahiers du Cinéma”, a cui collaborò fin dal loro inizio nel 1951. All'epoca, Maurice Schérer era già professore di liceo; il suo pseudonimo Eric Rohmer gli venne dai suoi gusti letterari, molto “tedeschi”. Goethe soprattutto; dall'autore di Faust Rohmer prese tra l'altro il gusto per la militanza neoclassica.
L'olimpo del Novecento si chiamava Hollywood, era là che bisognava ricercare la trasparenza apollinea, la perfetta trasposizione dello spirito del tempo nella quieta eternità delle forme. Gli Eschilo e i Sofocle contemporanei erano Murnau, Hawks, Welles e gli altri. Davanti a una Hollywood declinante (gli anni Cinquanta furono gli anni della crisi), gli alfieri della classicità diventavano gli Autori. Per questo, Rohmer è subito il nume tutelare dei “giovani turchi”, i critici dei “Cahiers” che propugnavano la politique des auteurs come supremo criterio estetico: “non esistono opere, esistono solo autori”. Erano i vari Godard, Truffaut, Rivette e Chabrol che negli anni Sessanta daranno vita alla Nouvelle Vague.
E cinema come arte dello spazio fu, anche e soprattutto per Rohmer. Anche lui, come gli altri, esordì dietro la macchina da presa tra 1959 e 1960. Il suo Il segno del leone, però, andò malissimo e a differenza degli altri dovette aspettare il 1969 per una vera e propria consacrazione al botteghino, ottenuta con La mia notte con Maud. Nel frattempo, Rohmer aveva già deciso, con la composta caparbietà che lo ha sempre contraddistinto, che cosa ne sarebbe stato della sua carriera. Orfano della classicità cinematografica (Hollywood), se la sarebbe creata in casa propria. Non potendo contare su quel grande terreno di assimilazione industriale e, inseparabilmente, sperimentazione creativa che erano i Generi, Rohmer si inventò lui stesso i filoni in cui inserire i propri film. Creò le serie che rendono così inconfondibile la sua filmografia: cicli di film che accompagnano alla ripetizione di uno schema grossomodo sempre uguale a se stesso, un raffinato gioco di variazioni interne, quasi di carattere musicale. Già prima di metterli in scena, Rohmer aveva scritto tutti e sei i Racconti morali che girò negli anni Sessanta: storie di uomini di insopportabile narcisismo esibito in voce over, alle prese con una scappatella che (volutamente) non avrà altro senso che quello di farli rientrare nei ranghi con tanto più zelo e convinzione. L'arte ispiratrice era qui, con ogni evidenza, il Romanzo.
Dopo quel periodo di transizione che furono per lui gli anni Settanta, dove fece regie teatrali e girò i capolavori in costume La marchesa von... (1976) e Perceval (1978), negli anni Ottanta si dedicò alle Commedie e proverbi: gli eroi lasciavano spazio alle eroine, e i rovelli del romanzo al dinamismo grafico del “teatro all'aria aperta”. Nei Novanta, dopo il pamphlet politico di incredibile acume e attualità L'albero, il sindaco e la mediatica (1991), sarà la volta dei Racconti delle quattro stagioni. Non ci sono i budget stellari di Hollywood? Pazienza, si farà di necessità virtù, l'importante è trovare dove e come la Bellezza e la Misura (gli imperativi della classicità) si nascondano nel caos dell'oggi. La risposta è sempre quella: nell'organizzazione armoniosa dello Spazio - che poi è la definizione del mitico concetto di “messa in scena”.
È vero che pochi cineasti sono attaccati alla parola tanto quanto lo è Eric Rohmer. È vero che i suoi film sono pieni di lunghe conversazioni riportate in tono neutro, tra personaggi che non temono di lasciarsi andare a spericolati riferimenti intellettuali. Ma non dobbiamo affatto intenderlo come un cinema “introspettivo”, o sbilanciato sui personaggi. Ciò che interessa a Rohmer è innanzitutto una scienza dei rapporti, non solo quelli di coppia ma soprattutto tra quello che si sente e quello che si vede; tra il fiume delle parole e le relazioni che si intessono graficamente e “in diretta” tra le persone, le cose e soprattutto gli ambienti. È a questo complesso gioco di relazioni che guarda la regia di Rohmer, sempre tesa a una trasparenza tanto cristallina quanto sconosciuta, incommensurabile rispetto all'opacità delle parole. Ma se invece fosse viceversa? E se tutti gli sforzi della sua macchina da presa per raggiungere la “percezione ordinaria della realtà (?) e della natura (??)” fossero un illusionismo proteso verso una radicale ambiguità? Rohmer ha costruito un'intera carriera su questo dubbio iperbolico. Anzi: un dubbio pascaliano, almeno quanto gli incroci inattesi tra i capricci del Caso e le leggi della Necessità, che innervano immancabilmente le trame rohmeriane.
Personaggio molto riservato, pochissimo esposto mediaticamente, a malapena si fece vedere per i Leoni d'Oro veneziani del 1986 (con il suo Raggio Verde) e del 2001, quando fu premiato per la carriera in occasione della presentazione del suo La nobildonna e il duca. Straordinaria meditazione sulla Storia e sulla tecnica, sulla Rivoluzione francese e su quella del Digitale, insieme al successivo Agente segreto (2004; incursione ancora più straordinaria sulla postmodernissima onnipresenza del complotto, ambientata negli anni Trenta). Questi ultimi lavori sigillano la carriera di Rohmer come più gli sarebbe piaciuto: testimoniando che solo ciò che è davvero classico è inevitabilmente attuale, a prescindere dai soggetti e dalle tecniche.

FOTO 1 > La mia notte con Maud, 1969
FOTO 2 > La Marchesa Von..., 1976
FOTO 3 > La nobildonna e il Duca, 2001

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