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FOTOGRAFARE GLI INVISIBILI di Fabio Piccini

Miina Savolainen e la fotografia di empowerment

pubblicato il 25 gennaio 2011

All images © Miina Savolainen

Miina Savolainen ha un nome così nordico che provoca quasi un brivido di freddo e che si pronuncia a fatica. E’ una giovane artista finlandese, un’eccellente fotografa, una geniale educatrice e probabilmente colei che meglio ha saputo interpretare i principi della fotografia di empowerment. Autrice di un premiatissimo progetto fotografico tutto al femminile, concepito con finalità socio-riabilitative, Miina è oggi un'autrice molto seguita nel campo della fotografia terapeutica.
Maailman Ihanin Tytto (The loveliest girl in the world, ovvero: La più bella del reame) nasce nel 2001 come progetto cooperativo di salute sociale con la finalità di dare volto e visibilità a giovani donne che, a causa di vicende personali particolarmente sfortunate, non sono mai state “viste” con occhi affettuosi dalle persone che avrebbero dovuto prendersi cura di loro. La vita ha riservato a queste donne soltanto abbandoni, violenze, privazioni, umiliazioni. Provengono da centri sociali, istituti riabilitativi, comunità, e molte di loro non posseggono altro che poche fotografie deteriorate e sbiadite di sé. Le stesse immagini che hanno introiettato e con cui sono ormai abituate a vedersi. Anime brutte, donne dimenticate e da dimenticare. Bambole rotte che nessuno si cura nemmeno di guardare più. Questa è più o meno la percezione che hanno di sé stesse.



Miina sceglie proprio queste donne per lavorare a un progetto di Empowering Photography, utilizza cioè la fotografia come strumento per ridare loro un aspetto e un volto dignitoso e umano. Anzi, addirittura fiabesco! Decide infatti di prendere a prestito la mitologia delle fiabe nordiche e di far impersonare a queste donne le eroine di un libro di favole destinato a cambiare per sempre il modo in cui sono abituate a vedersi e sentirsi. Un progetto sicuramente ambizioso e quasi folle, anche perché comporta lo spostarsi nell’outback finlandese in fuoristrada, in motoslitta, con gli zaini sulla schiena, dormendo quasi sempre in tenda, o sotto le stelle. In fondo però è un viaggio terapeutico, sciamanico, molto simile al viaggio che l’eroe della fiaba deve intraprendere per raggiungere un oggetto con poteri straordinari, o per incontrare un mago. Un viaggio fiabesco, ma allo stesso tempo reale, a ritroso nel tempo interiore e contemporaneamente in avanti rispetto al tempo oggettivo.
Lo scopo? Far sentire loro, almeno per una volta nella vita, quello che ogni bambina (o bambino) dovrebbe poter sentire per crescere con una sana fiducia di sé, cioè la consapevolezza di essere la più bella del reame. In che modo? Mettendole al centro di un set fotografico e producendo una serie di immagini favolose destinate a rimpiazzare le immagini interiori che queste donne hanno di loro stesse. In poche parole, una scommessa sui poteri terapeutici della fotografia.



E' facile presumere la riuscita di questo progetto dai premi che ha ricevuto (Photographer of the year 2005, Finish Medical Association Cultural Award 2005, State Award for Children Culture 2006, etc.), ma è ancor più interessante comprendere il significato che quest'esperienza ha avuto per le giovani protagoniste direttamente dalle loro parole: “Le fotografie mi hanno fatto sentire per la prima volta speciale” (Ann-Mari); “Ritengo che queste fotografie mi abbiano mostrato per la prima volta nella mia vita chi sono veramente” (Monna); “Stare davanti alla macchina fotografica mi ha dato all’inizio un senso di oppressione, nessuno mi aveva mai guardato con tanta attenzione. Ma quando poi ho visto le foto… ero così felice… così felice… ero bellissima e speciale” (Jenna); “Queste fotografie hanno cambiato il mio modo di guardarmi, sia fuori che dentro” (Mira).



Dunque sentirsi per la prima volta guardate con attenzione e apprezzate, vedersi belle, percepire di essere principesse di un mondo fatato ha davvero fatto il miracolo? Questo non posso affermarlo con certezza, ma certo è che questo progetto ha dimostrato in maniera molto elegante ed efficace che la fotografia può essere un eccezionale strumento terapeutico per curare la deprivazione che nasce dall’essere stati bambini “non visti”.



Miina ha trattato queste giovani donne come se fossero le sue figlie predilette con cui costruire uno splendido album di ricordi. E questi nuovi ricordi sembrano aver almeno in parte sostituito quelli precedenti, al punto che tutte hanno riferito di sentirsi e vedersi meglio al termine del progetto. Ma soprattutto tutte hanno affermato di guardarsi e di ri-vedersi con occhi nuovi. Come se davvero i ritratti di Miina le avessero aiutate a ricostruire nuove immagini di sé stesse.
Certo, la fotografia di empowerment è molto più che la semplice composizione di un libro fiabesco. Essa fa uso di sessioni foto-terapeutiche interattive, dell’analisi delle fotografie conservate dal soggetto, come pure delle nuove immagini che questo realizza nel corso del lavoro. Lo scopo è quello di stimolare l’indagine e la ricostruzione della storia del soggetto, dei suoi legami famigliari, delle sue relazioni, dei suoi ruoli sociali. In questo tipo di lavoro il fotografo si pone sullo stesso piano del soggetto in un atteggiamento dialogico e agendo come un counselor, o un assistente sociale, lo aiuta a capire e ad affrontare i nodi della sua vita attuale.



La fotografia di empowerment non ha particolari pretese terapeutiche, ma può essere uno strumento utilissimo all’interno di centri sociali, o di scuole, per favorire la crescita e la presa di coscienza dei soggetti sulle loro vite. E questo è particolarmente vero per persone affette da handicap, o da svantaggi sociali. Deve essere chiaro che per poter svolgere un ruolo del genere il fotografo dovrebbe sottoporsi preventivamente in prima persona a un lavoro in tal senso effettuato sotto la supervisione di un “esperto”, ma è evidente che questo tipo di formazione non potrà che aprirgli nuovi orizzonti personali e professionali.



Il sito di Miina Savolainen

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