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LA NATURALEZZA IMPLICITA NEL GESTO FOTOGRAFICO di Roberto Maggiori

Ultimamente si fa un gran parlare di Serge Latouche, di decrescita, di ritorno a concezioni della vita e del consumo più naturali. Al cinico approccio razionale iperproduttivo inizia finalmente a contrapporsi un modo di fare ragionevole, più vicino all’equilibrio naturale che alle logiche dell’economia capitalista. Gli artisti come sempre anticipano il pensiero comune e già dagli anni ’50 molti di loro rifiutano il razionalismo fine a se stesso per tornare a sporcarsi le mani con la Natura e la sua rappresentazione. E’ il caso di Nino Migliori e di molti suoi lavori dal 1948 a oggi.

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Naturalmente 1986

"Credo che il denominatore comune dell'universo non sia l'armonia, ma il caos." (Werner Herzog)

C’è stato un periodo in cui l’arte e la cultura in generale, restarono ammaliate dal mito del progresso conseguente al raziocinio umano, presuntuosamente inteso come rimedio universale a tutti i mali e tappa finale di un’evoluzione suprema finalmente in grado di dominare definitivamente la Natura. Si credeva che l’ingegno costruttivo generato dalla razionalità fosse sufficiente da solo a garantire ordine e prosperità, autonomia e benessere per l’unica razza animale capace di elevarsi rispetto alla Natura grazie all’esclusività del proprio intelletto. Quel mito in ambito artistico si celebrò sotto la forma di un’astrazione geometrica ricca di cerchi perfetti e angoli retti, con l’intrusione in diversi casi anche di numeri e lettere, evidenti metafore di un alfabeto esclusivamente umano, estraneo alle forme contingenti e meno rigorose della Natura. Si simboleggiò in questo modo l’ingegno capace di emanciparsi dai modelli, dai ritmi e dalle logiche naturali considerate ormai primitive. Ecco allora che la produzione artistica di quel periodo, come sempre sintesi emblematica del proprio tempo, si riconobbe in termini come Cubismo e Neoplasticismo, Suprematismo e Costruttivismo, termini in grado di sottolineare la dominazione dell’uomo sulla Natura.
Quel mito sappiamo essersi rovinosamente infranto nel secondo dopo guerra, quando da Oriente a Occidente si rese evidente la disumanità di un tale eccesso di razionalità, capace in definitiva di rendere più efficiente la barbarie umana come quella causata dalle guerre mondiali. Il razionalismo nel Novecento non si è infatti rivelato soltanto nella Storia dell’Arte sotto i segni di Mondrian e Malevic, giusto per citare i casi più emblematici, ma ha impregnato tutti i comparti della società, dalla politica all’economia, rendendo legittime modalità organizzative votate a un’efficienza tutt’altro che naturale come quella che si è espressa nella catena di montaggio fordista, nella burocrazia sovietica, nella bomba atomica prima su Hiroshima e poi su Nagasaki e nella macchina di sterminio nazista all’opera nei campi di concentramento, tutti esempi di un approccio estremamente razionale e funzionale alla risoluzione dei problemi.

Image and video hosting by TinyPic Pirogramma 1948

Dopo il secondo conflitto mondiale, gli artisti più scaltri si resero presto conto di quanto tale razionalismo fosse controproducente a un’umanità tanto superba e pericolosamente allontanatasi dal suo posto all’interno dell’ecosistema. Ecco allora che, come un anticorpo, nei settori alternativi della società, al razionale si inizia a contrapporre il ragionevole (1), alla contemplazione distaccata, quasi scientifica, con cui veniva esperita e realizzata l’opera d’arte, subentra l’azione emotiva dell’Action Painting, e all’essenzialità razionale si sostituisce un esistenzialismo fenomenico che inverte il senso di marcia: dal futurismo al caos primordiale. L’astrazione cambia dunque segno: da geometrica, formale, a lungo meditata e rigorosa, si fa biomorfa, informale, veloce e caotica. I nuovi segni sono ora quelli di Wols (2) e Jackson Pollock, Willem De Kooning e Jean Fautrier, Jean Dubuffet e per certi versi Francis Bacon; ed è proprio da questo humus che allo nella seconda metà del Novecento emerge la figura di Nino Migliori.

Image and video hosting by TinyPic Muri 1949-1979

Dopo aver fotografato in un’originale chiave neorealista la gente del sud, del delta del Po e della sua Emilia, Migliori è tra i primi ad approcciare una modalità operativa Informale in Italia, iniziando ad avvicinarsi con le sue sperimentazioni e con le note foto dei Muri o dei Manifesti strappati (dal 1954), a questa nuova astrazione contemporaneamente ad Alberto Burri e poco dopo le esperienze di Lucio Fontana, Emilio Vedova e dell’Ultimo Naturalismo di Ennio Morlotti. Proprio come Vedova, che Nino ha frequentato a lungo, Migliori lavora lasciando spesso una traccia “calligrafica” della propria azione artistica, in questo caso direttamente sul negativo o sul supporto emulsionato. Si tratta di una traccia veloce ed espressiva, come quella lasciata negli Eden flowers (1984) o nei più recenti Paesaggi Infedeli (2008), o nel progetto site-specific Intorno a una jungla progettata. In questi lavori l’autore “incide” manualmente, con una tecnica da lui scoperta e definita Polapressure, le polaroid dove sono ripresi paesaggi naturali, imprimendo sulla loro superficie dei segni nel breve tempo concesso dallo sviluppo automatico, prima che l’immagine si fissi definitivamente.

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Intorno a una jungla progettata 2009

Un approccio vicino all’espressionismo astratto, o Informale che dir si voglia, dunque quello con cui Nino Migliori affronta la materia fotografica, un approccio e un metodo, come abbiamo detto, che propende già di per sé sul versante del naturale coinvolgimento emotivo al fare artistico anziché a un freddo e calcolato raziocinio. Contrariamente ai suoi colleghi pittori Migliori può inoltre vantare il peculiare valore aggiunto dell’immagine fotografica in cui il gesto espressivo, applicato manualmente dall’autore sul supporto cartaceo, convive con l’impronta automatica del soggetto o della materia posta di fronte all’obiettivo e impressionata dall’emulsione fotosensibile. Un’esperienza al quadrato, una traccia nella traccia. Del resto la fotografia è sempre un’arte relazionale in cui la contemplazione distaccata possibile nel raffigurare qualcosa di solo immaginato, lascia il posto all’incontro con il soggetto, sia questo un essere vivente, un paesaggio, un’azione, o se stessi, come ben hanno saputo anche autori come il già citato Francis Bacon e successivamente i body artisti Arnulf Rainer e Günter Brus (3).

Herbarium 1974

La “naturale” propensione al fotografico che Nino mette in opera si evidenzia inoltre attraverso gli strumenti di cui si serve e solo in un secondo tempo nella scelta del soggetto. Per questo rinnega quasi sempre l’eccessiva macchinosità (ma non la meccanicità) del medium fotografico e alle tecnologie hi-tech delle fotocamere più evolute e agli obiettivi dalla definizione ipernitida, preferisce di gran lunga il foro stenopeico o più spesso le “povere”, semplici, polaroid o ancora la sperimentazione off-camera che lo riconduce sui passi di Henry Fox Talbot per “scrivere” con quella che il noto pioniere definiva appunto La matita della natura. E’ il caso della serie Herbarium, sorta di citazione degli esperimenti pionieristici dell’inventore inglese. Nei fotogrammi di Nino però ci sono delle novità. Oltre all’aggiunta del colore, Migliori lavora sulla diacronia rifotografando gli stessi elementi vegetali a distanza di tempo, registrando così l’inevitabile decomposizione della materia, metafora del naturale scorrere del tempo, ma anche delle molteplici realtà che la fotografia può proporre di uno stesso soggetto. Infine, in un’altra serie fotografica, le foglie di Voyage inside a leaf (1991) aumentano gradualmente la loro dimensione fino a mille e più ingrandimenti, trasformandosi da documento oggettivo (alla Blossfeldt) di nuovo in immagine astratta, fitomorfa e informale.

Carte ossidate 1996

Dal 1948, negli oltre sessant’anni di sperimentazione, che hanno contraddistinto l’eclettico lavoro fotografico di Nino Migliori, la Natura è sempre stata ineludibile, manifestandosi non solo nell’istintiva gestualità o nella scelta dei soggetti, ma soprattutto nei suoi elementi primari e costitutivi come l’acqua (Idrogrammi), l’aria (Ossidazioni), il fuoco (Pirogrammi), la terra (ancora nelle Ossidazioni), per non dire poi della luce (Lucigrammi), o addirittura di alcuni curiosi esperimenti come i Photobiografemi risultanti dalla registrazione, su un foglio di carta fotosensibile a colori, dei percorsi notturni di alcuni scarafaggi muniti di leggerissimi led (di colore differenziato a seconda del sesso dell’insetto) lasciati scorrazzare sulla superficie emulsionata. In questo caso gli scarafaggi lasciano autonomamente la traccia del proprio passaggio, la Natura che si auto rappresenta quasi in un’ironica citazione della nota operazione di Franco Vaccari esposta alla Biennale di Venezia del 1972, operazione, questa di Nino, che sposta però l’attenzione dalla sfera meccano-antropologica a quella chimico-entomologica.

Image and video hosting by TinyPic Photobiografemi 1985

Migliori quindi, al pari di colleghi Informali quali quelli provenienti dall’Arte Povera e dalla Land Art, si sporca le mani con gli elementi naturali e con la loro deperibilità, mettendo in scena situazioni dinamiche, mutanti e vivaci come nell’installazione Natura/Snatura (2005) in cui una serie di fotografie di frutta e verdura, confezionata e disposta sui banchi dei supermercati nel 1977, vengono successivamente trasformate in ceri accesi, destinati a consumarsi nella combustione. Atto d’accusa nei confronti di una situazione che ha ridotto la Natura alle logiche della mercificazione e della produzione intensiva e al tempo stesso moto liberatorio generato dalla naturale e primordiale azione del fuoco.
Anche nei recenti lavori Nino utilizza ciò che resta della natura, come succede nella serie Il tempo rallentato, realizzata a Copenhagen. In queste fotografie, vere e proprie nature morte, Migliori riprende frutti e ortaggi immersi in liquidi conservativi posti all’interno di contenitori trasparenti. Come nella serie fotografica Nature morte (1977), utilizzata nell’installazione Natura/Snatura citata poche righe sopra, questi prodotti della terra si presentano apparentemente rigogliosi, cromaticamente saturi, vivificati dal liquido trasparente, e al tempo stesso deformante, che li mantiene nel tempo. Un’evidente metafora del “racconto” fotografico e dell’immagine ambigua della realtà confezionata e divulgata dai mass media. Una realtà qui inquadrata e delimitata dal vetro, corpo elementare nell’ambito del fotografico e della visione in generale (4): il vetro dell’obiettivo e del mirino che inquadra e organizza ciò che viene registrato dalla macchina fotografica o che consente l’impronta off-camera nel caso del fotogramma. Un “diaframma” trans-apparente tra noi e la realtà, tra il tempo che scorre e quello immortalato per sempre. In questo caso il gioco metalinguistico si fa più evidente ed è finalizzato a smascherare l’immaginario attraverso il quale “esperiamo” la natura, ridotta a simulacro imbalsamato della realtà. Quasi una messa in scena fotografica del “Complesso della mummia” tramite il quale André Bazin sosteneva si potesse “salvare l’essere attraverso l’apparenza” (5).


Il tempo rallentato 2009

Un’operazione allora che è contemporaneamente un guardare e una presa di coscienza sull’atto stesso del guardare e sulle sue sedimentazioni culturali. Esattamente quello che succede anche in uno degli ultimi lavori di Migliori, intitolato Il magico giardino di Ludwig Winter (2009). In queste polaroid riprese all’interno del Parco Naturale di Villa Seghetti Panichi (in provincia di Ascoli Piceno) l’autore inserisce, con una tecnica da lui scoperta e definita Polaoro, tracce d’oro che dialogano con i paesaggi fotografati. Il minerale alchemico per antonomasia, che tanta parte ha avuto nelle vicende artistiche pre-moderne, fa da contrappunto al ritmo della natura registrato dalla macchina fotografica. Ancora una volta queste fotografie tendono all’informale, a un’esperienza di con-fusione primordiale tra l’uomo e la natura, esperienza resa possibile dalle qualità relazionali e al tempo stesso simboliche, offerte dal medium fotografico.
Nei progetti di Nino Migliori il negativo, la polaroid o l’emulsione fotosensibile applicata ai supporti e alle superfici più disparate, incontrano il caso e la naturale contingenza degli eventi, che diventano co-autori dell’opera: “collaboratori” scelti dall’artista per la loro efficacia nel rappresentare la Natura tradotta in cultura. La sperimentazione di Migliori fronteggia così le tecniche e i generi più disparati con disinvoltura, senza lasciarsi coinvolgere da quell’istanza produttiva che vuole l’artista legato a uno stile sempre riconoscibile e ripetitivo, vero e proprio brand in grado di accontentare il mercato. Il rimettersi sempre in discussione è invece un atteggiamento naturale per chi, come Migliori, vive la pratica fotografica tutti i giorni con la curiosità e il ragionevole impulso alla ricerca di nuove opportunità espressive e linguistiche, accantonando il razionalismo meramente finalizzato alla produzione per la produzione.

note
(1) La contrapposizione tra la razionalità, portatrice di un’efficienza e una tecnologia fini a se stesse, e la ragionevolezza di un’efficacia finalizzata alle necessità reali, compatibile con i ritmi della natura, è ben spiegata dall’economo e filosofo francese Serge Latouche in diversi saggi come: La megamacchina, [trad. it.], Torino, 1995.
(2) Wols (Alfred Otto Wolfang Schulze) utilizzò anche la fotografia, sempre precocemente impegnato sul fronte Informale, realizzando scatti emblematici come il noto Schwensniere del 1937.
(3) L’informale sui generis riscontrabile nella produzione di Bacon è fortemente calibrato sulla fotografia, che l’autore inglese utilizzava come importante base di partenza da rielaborare durante la pittura. Le fotografie di cui si servì vanno dagli scatti anonimi agli album di Muybridge, dai fotogrammi dei film di Buñuel, Eisenstein, Stroheim, alle fotografie mediche di alcune patologie riguardanti la bocca, fino agli autoritratti ottenuti nella cabina fotomatic. Lo stesso vale per gli autoritratti fotografici che Rainer vivacizzava con una vera e propria Action painting e per la produzione video fotografica dell’azionista viennese Günter Brus.
(4) Il vetro della finestra, delle lenti degli occhiali, dei cannocchiali e dei microscopi, sono sempre stati sottili diaframmi tra noi e il visibile che ci hanno permesso di circoscrivere e osservare fenomeni reali. Fino ad arrivare agli schermi dei monitor attraverso i quali, come sostiene Virilio, la percezione della realtà non è più mediata dalla trasparenza, ma dalla trans-apparenza.
(5) Il “realismo ontologico” di Bazin, così come il “realismo fisico” sostenuto da Sigfried Kracauer e anche la successiva definizione di Pier Paolo Pasolini che intendeva la registrazione filmica come una “lingua scritta dalla realtà”, sono tutte teorie applicate al campo foto-cinematografico i cui principi sono rintracciabili nelle constatazioni-riflessioni di Talbot sulla fotografia espresse nel suo The Pencil of Nature, edito nel 1844.

*Testo tratto da Nino Migliori - Nature Inconsapevoli, Editrice Quinlan, 2009

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