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MANIFESTA 2010 di Anna Lovecchio

Manifesting Malaise, uno sguardo sull’ottava Biennale Europea di Arte Contemporanea appena inaugurata.

pubblicato il 21 ottobre 2010
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È innegabile che l’ottava Biennale Europea di Arte Contemporanea in corso a Murcia e Cartagena sia attraversata da molteplici correnti di disagio. Se Hedwig Fijen, fondatrice di Manifesta, distingue la sua Biennale, in contrasto con tutte le altre, come un evento “indipendente, entusiastico e anti-istituzionale” che “non si conforma a nessuna formula pre-costituita”, i tre collettivi artistico-curatoriali incaricati della cura di questa edizione - Alexandria Contemporary Arts Forum (ACAF), Chamber of Public Secrets (CPS), e tranzit.org - appaiono decisamente più scettici riguardo alla effettiva diversità strutturale della Biennale Europea che, benché caratterizzata da un format itinerante e da una vocazione site-specific alimentata da attività di ricerca e produzione sul territorio, risponde ai requisiti di uno spettacolo culturale su scala globale che “segue le logiche intrinseche e i giochi di potere delle egemonie economiche e culturali dell’Occidente” (tranzit.org).
Un ulteriore elemento di disagio è costituito dalla traccia scelta per questa edizione: “La Regione di Murcia in dialogo con l’Africa del Nord”. Questa indicazione di ricerca dalle implicazioni geopolitiche pericolosamente universalistiche sembra esser stata “subìta” dai curatori al punto da da risultare pressoché rimossa nelle diverse configurazioni espositive – con riscontri sporadici solo in singoli lavori – per trovare, invece, spazi di approfondimento nel convegno, organizzato da ACAF, sulla possibilità di istituire una Biennale Nomade Pan-Africana e nel Reader, edito da tranzit.org, dedicato alle convergenze fra post-comunismo e post-colonialismo che verrà pubblicato il prossimo Dicembre. L’attrito concettuale suscitato dalla scelta di mettere in dialogo una regione circoscritta come quella di Murcia con l’intera fascia continentale del Nord Africa, nonché il sottile paternalismo di discorsi genericamente politically correct di apertura all’altro, trovano una efficace materializzazione nel lavoro del francese Thierry Geoffroy alias The Colonel, il quale con mezzi minimi e rudimentali converte parte della Prigione di San Antón (Cartagena) in area espositiva, da lui definita “zona di penetrazione”, riservata ad artisti nordafricani in una sarcastica formalizzazione del confinamento culturale cui spesso approdano tali iniziative di inclusività.

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Liquidata in questo modo la poco gradita intelaiatura tematica, i tre teams curatoriali riprendono il filo dei rispettivi percorsi di ricerca approdando alla formulazione di una Theory of Applied Enigmatics (ACAF), alla teorizzazione dell’ Aesthetic Journalism (CPS) e alla promulgazione di una Constitution for Temporary Display (tranzit.org), titoli intriganti che lasciano intravedere la densità teorica dei testi contenuti nel catalogo. Ed è proprio questo il cuore pulsante del terzo, e più significativo, fattore di disagio.
Infatti, al di là della eterogeneità dei contentuti, i tre concepts curatoriali esprimono lo stesso senso di stanchezza nei confronti della critical theory e di quelle pratiche di demistificazione delle economie cognitive (post)capitalistiche che hanno giocato un ruolo fondamentale nelle ricerche artistiche e curatoriali più radicali degli ultimi decenni. Se da un lato vengono rifiutati gli approcci tematici e le istanze metodologiche che permettono ai criteri curatoriali di prevalere su opere e artisti, dall’altro viene resa esplicita la necessità di abbandonare territori concettuali ormai stagnanti e l’urgenza di aggiornare l’atteggiamento estetico nei confronti della realtà superando la dicotomia fra teoria e pratica. Così la Theory of Applied Enigmatics si presenta come una “tattica di de-strumentalizzazione e di apertura alla complessità della vita” posta in bilico fra “il teoretico e il poetico” che “riformula il legame relazionale fra il curatoriale, il politico, il culturale e le pratiche artistiche” (ACAF) mentre l’Aesthetic Journalism identifica la consapevolezza che agire in maniera critica nella società contemporanea implica inevitabilmente il confronto con i sistemi di informazione mediatica. Ma la sperimentazione effettiva di metodologie curatoriali innovativi è tentata da tranzit.org. La loro Constitution for Temporary Display è un processo collettivo di decision-making, culminato in un dibattito di tre giorni tenutosi a Murcia, in cui sono stati coinvolti tutti gli artisti selezionati dal collettivo. Il confronto si è svolto a partire da quarantaquattro domande ad ampio spettro rivolte da tranzit.org agli artisti (in che misura un gruppo di artisti invitati a partecipare ad una mostra può generare azione (sociale)? Può uno spazio espositivo diventare pubblico? Il budget va suddiviso democraticamente o in base alle esigenze di ogni singolo progetto/artista? Bisogna accettare la logica della inaugurazione ufficiale? ecc.). L’intento programmatico era quello di riformulare le dinamiche convenzionali dell’exhibition making e di convertire la relazione asimmetrica fra curatori e artisti in uno spazio “costituente” nel quale decisioni curatoriali e organizzative vengono prese in maniera collettiva. Che questo processo di auto-regolamentazione e di “diffusione” della responsabilità curatoriale sia stato rifiutato dagli artisti è significativo: la costituzione non è stata scritta, le domande sono rimaste senza risposta, e il gruppo ha deciso di preservare quella distinzione dei ruoli che si voleva, almeno da una parte, superare. La sperimentazione di “micropolitiche temporanee dell’evento espositivo” tentata da tranzit.org è risultata fallimentare nel senso che non è riuscita a implementare processi di auto-organizzazione e di auto-legittimazione alternativi a quelli consolidati nel sistema.
Bisogna purtroppo constatare che l’imponente dispiego di mezzi teorici compiuto dai tre team curatoriali non regge il confronto con gli esiti materiali di questa Biennale. La concretizzazione di concepts sperimentali e potenzialmente sovversivi non ha dato luogo a soluzioni installative inedite e, nell’insieme, le configurazioni espositive riflettono poco le metodologie curatoriali alternative invocate nel catalogo. Inoltre, il rifiuto di incasellamenti tematici ha prodotto l’eccesso opposto di rendere imperscrutabili le ragioni per le quali alcune opere si sono trovate a convivere nello stesso spazio e, nei contesti più suggestivi, come la Antigua Oficina de Correos y Telégrafos e i Padiglioni dell’Antiguo Cuartel de Artillerìa a Murcia e la Prisión de San Antón a Cartagena, la forza auratica di architetture obsolescenti, evacuate dalla loro funzionalità, finisce talvolta per porre gli interventi artistici in una posizione di debolezza. In questo campo minato, l’installazione Desterrado della portoghese Carla Filipe si distingue nel riuscire, con la sua “archeologia migrante del presente”, a generare un efficace cortocircuito fra gli screpolati locali dei bagni del Cuartel de l’Artillerìa e i residui di una quotidianeità testuale, oggettuale e orale intercettati durante ripetuti attraversamenti della città di Murcia.

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Certo è che la maggior parte degli artisti ha resistito al fascino site-specific esercitato da alcuni degli edifici che ospitano questa edizione di Manifesta indirizzando altrove la propria attenzione. Pedro Romero prosegue la sua decennale impresa enciclopedica, Archivo F.X., raccogliendo immagini e narrazioni legati alla furie iconoclaste che hanno segnato il volto della Spagna negli anni Trenta. Il 1936, anno di inizio della guerra civile spagnola, è anche la data di una fotografia di gruppo che anima l’installazione Outnumbered – A brief history of imposture (2009) di Jasper Rigole. L’immagine panoramica di grandi dimensioni è sottoposta ad una scansione ravvicinata da una ipnotica apparecchiatura e i primi piani, proiettati nella stanza adiacente, sono accompagnati da un voiceover che preleva, in maniera casuale, storie di “impostori” da un apposito database.
Invece i film di Stefanos Tsivopoulos e di Laurent Grasso, installati “in solitario” rispettivamente nel Casino e nell’Antico Padiglione delle Autopsie a Cartagena, ci permettono di allungare lo sguardo nelle stratificazioni di senso del territorio. Amnesialand indaga le suggestive alchemie mnemoniche generate dalla interazione fra i metalli che impregnano il suolo della Regione di Murcia e i sali d’argento delle fotografie dei primi del Novecento. Mentre The Batteria Project di Laurent Grasso ricostruisce la fisionomia della linea costiera attraverso i dispositivi di difesa e sorveglienza che, nei secoli, si sono sedimentati nel paesaggio.

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Una sferzante critica nei confronti delle biennali di arte contemporanea è condotta dal collettivo inglese Common Culture che, nell’insolente video Production: The New Eldorado in Murcia, affida a tre folkloristici personaggi posti in una situazione disco-kitsch il compito di disquisire sulle implicazioni politiche del turismo culturale. Il collettivo russo-finlandese The Arts Assembly ha, invece, allestito nell’Espacio Molinos del Rio un laboratorio per la riflessione condivisa dove i visitatori sono invitati a indicare punti di forza e fattori critici dei lavori presenti in Biennale e ad esprimere quelli che, secondo loro, dovrebbero essere i criteri generali di valutazione delle opere di arte contemporanea.
Per concludere, Manifesta 8 conferma la recente consuetudine di affidare la cura di eventi espositivi ad altissima visibilità mediatica a collettivi piuttosto che a singoli curatori. La diffusione di questo fenomeno riflette, e allo stesso tempo legittima, la crescente presenza sulla scena artistica internazionale di soggettività diffuse che sperimentano formazioni identitarie alternative alle logiche dell’individualismo dominante così come è significativo che questi collettivi presentino spesso una natura ibrida, artistica e curatoriale insieme. Tuttavia, le problematiche emerse in questo caso specifico nulla tolgono alla effettiva urgenza di ripensare le dinamiche sottese al sistema dell’arte poiché, come ci ricorda l’artista tedesco Stephan Dillemuth nella sua critica delle istituzioni preposte alla produzione del sapere (El árduo camino hacia el conocimiento) se, per loro stessa natura, il 90% degli esperimenti è inevitabilmente destinato a fallire, la forza della metodologia sperimentale è piuttosto quella di attivare una sequenza infinita di sperimentazioni che spingono “il ricercatore in un viaggio nell’ignoto”.

FOTO 1 > The Arts Assembly, 2010 The Critical Organ, 2010.
FOTO 2 > Thierry Geoffroy/Colonel, Intervento site-specific, 2010.
FOTO 3 > Jasper Rigole, OUTNUMBERED - A brief history of imposture, Multimedia installation, 2009.
FOTO 4 > Jasper Rigole, OUTNUMBERED - A brief history of imposture, Multimedia installation, 2009.
FOTO 5 > Stefanos Tsivopoulos, Amnesialand, 2010. S16mm transferred on Blu-ray, single-channel installation.

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