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ARTICOLI > NUMERO 04 > GENNAIO/MARZO 2005

RICHARD AVEDON di Claudio Marra

Ha ripreso con piglio ironico e dissacrante tutti i divi degli ultimi cinquant’anni e inquadrato drammi angoscianti come il cancro che uccise suo padre o il nero William Casby “nato in schiavitù”. dopo Newton e Cartier-Bresson se n’è andato a ottantuno anni anche il grande Avedon.

photo Anno veramente infausto, il 2004, per i grandi nomi della fotografia. Dopo Helmut Newton ed Henri Cartier-Bresson, se n’è andato anche Richard Avedon, spentosi ad ottantuno anni lo scorso primo ottobre. Sarebbe certamente uno sbaglio, di fronte all’enorme mole di lavoro che ci ha lasciato, ricordare oggi Avedon semplicemente come superbo ritrattista e come grande star della fotografia di moda. Sarebbe un grave sbaglio perché, come sempre capita quando si fa riferimento ai generi e alle etichette più consolidate, si rischierebbe di suggerire un’idea di fotografia strettamente tecnica, asfitticamente limitata ad un’operatività specializzata tutta giocata sulla pura formalità dell’immagine. Le etichette vanno bene per gli epigoni, per i continuatori, per i bravi artigiani, non per filosofi dell’immagine come sono stati Newton, Cartier-Bresson e lo stesso Avedon. Per rendersene conto basterebbe rileggere un notissimo stralcio di una conferenza tenuta da Avedon al Moma di New York nel settembre del 1986: Quando ero ragazzo, le istantanee della mia famiglia erano un’operazione condotta con grande cura. Arrivavamo a pianificarle. Costruivamo delle pose. Ci vestivamo eleganti. Posavamo di fronte a case e macchine costose che non erano nostre. Prendevamo in prestito cani. Quasi in ogni foto scattata durante la mia giovinezza c’è un cane sempre diverso, e sempre preso in prestito […] Tutte le fotografie contenute nel nostro album di famiglia erano fondate su una qualche bugia riguardo a chi eravamo e rivelavano una verità su chi avremmo voluto essere.
Ecco cosa si intendeva quando dicevamo filosofo dell’immagine: la capacità di individuare e svelare il vero linguaggio della fotografia, quello che gli epigoni e i bravi artigiani pensano di identificare in qualche stravaganza di inquadratura, nell’uso sapiente della luce, nell’equilibrio della composizione o che diavolo altro. Il vero linguaggio della fotografia sta tutto nell’intuizione metodologica compresa nelle parole di Avedon. Ciò che conta è sempre la dimensione concettuale del mezzo e non altro. Dimensione concettuale che ovviamente varierà da autore ad autore, da poetica a poetica (per Avedon riguardava come si può facilmente intuire dalle sue parole la dialettica realtà/finzione, per Newton era un voyeurismo esasperato, per Cartier-Bresson un’estasi temporale) ma che in ogni caso si dimostrerà sempre decisiva nella costruzione dell’immagine.
Cosa conta dire ora che Avedon è stato uno dei grandi maestri della fotografia di moda? Cosa conta dire che ha reinventato questo genere introducendo la formula del racconto pseudo-cinematografico? Certo che è stato così, ma Avedon c’era già tutto in quelle foto di famiglia, o meglio, c’è già tutto nella consapevolezza poi sviluppata su quelle immagini. Quelle fotografie, come del resto tutte quelle raccolte nei nostri album, erano magari scadenti quanto a tecnica di esecuzione, con ogni probabilità erano state realizzate con qualche macchinetta da pochi dollari, non potevano certo usufruire delle ricche location e delle strabilianti modelle (detto per inciso, da Twiggy a Veruschka, tutte l’hanno sempre considerato “il più grande”) che poi Avedon ha avuto a disposizione. Ma in quelle immagini c’era già tutta la forza della sua poetica, implicitamente c’era già tutto il suo linguaggio. Per chi si chiedesse dove ha studiato Avedon, in quale prestigiosa scuola abbia imparato a fare fotografia, la risposta è semplice: Avedon ha studiato sul suo album di famiglia.
Si è detto della moda ma il discorso non cambia se si guarda ai ritratti e si scopre che durante la guerra Avedon, arruolato in marina come ufficiale-fotografo, si era professionalmente formato scattando migliaia di fototessere per i documenti di riconoscimento delle reclute. Un lavoro apparentemente meccanico, ripetitivo, apparentemente privo di creatività, sdegnosamente snobbato da chi vuole fare l’”artista”, ma che invece Avedon ha sempre considerato fondamentale nello sviluppo della sua poetica, perché nella delega totale ed assoluta alle capacità di oggettivazione espresse in proprio dalla macchina, c’è tutto il fascino ed il mistero del ritratto fotografico, il suo “specifico” rispetto a quello pittorico. L’autore c’è, ma è come se non ci fosse. E’ questa l’altra grande intuizione di Avedon, è la stessa idea che poi ritroveremo in tutti i suoi ritratti, e in massima concentrazione in quello più emozionante di tutti, quello scattato al vecchio padre il 25 agosto 1973. Un ritratto struggente, penetrante, implacabile, oggettivo come una fototessera.

FOTO 1 > Charles Chaplin, attore, New York City 13 settembre 1952
FOTO 2 > William Casby, nato in schiavitù, 1963
FOTO 3 > Michael Moore, political satirist, 2004

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