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ARTICOLI > NUMERO 02 > LUGLIO/SETTEMBRE 2004

L'INTERPRETAZIONE NELLA FOTOGRAFIA D'ARCHITETTURA E URBANISTICA
di Francesca Sprecacenere

“Consideriamo l’esempio di un gruppo di villette sparse in un’area suburbana: una situazione tipica nei nuovi territori italiani. rappresentata da una mappa topografica, essa ci rivela solo alcune geometrie irregolari, indecifrabili. se osservata invece da vicino, cercando indizi delle relazioni che legano gli abitanti al loro luogo di residenza, essa ci può dire molto di più”.

photo Così Stefano Boeri in Sezioni del Paesaggio italiano (1997), parlando dell’evoluzione del territorio e dei modi di osservarlo: cioè di quali punti di vista possano supplire le carenze delle discipline tradizionali – architettura e urbanistica – nel decifrare e restituire l’esperienza dello spazio abitato.
Le più recenti esplorazioni del territorio [1] sembrano sostenere con forza la necessità di moltiplicare le modalità di visione. Quindi di osservare lo spazio e le architetture non più secondo uno schema distanziato e zenitale, bensì costruendo un “atlante eclettico”: una mappa basata su stimoli visivi plurimi, laterali, capaci di penetrare nel paesaggio e nei sommovimenti che esso subisce.
Le attuali indagini sullo spazio abitato confermano, in sintesi, che la fotografia – se sostenuta da uno sguardo capace di interpretare, e non solo di documentare acriticamente – è medium dal quale non si può prescindere per conoscere e rappresentare il mondo. Il processo dell’inquadrare-selezionare dal reale è quello che aiuta l’uomo a cogliere il genius loci. E se nel luogo vi è la presenza dell’architettura, “simbolo del nostro ‘essere-sulla-terra’” (M.Canzian, 1997) allora la ricerca dell’identità attiene all’uomo stesso e alla sua storia.
Così, ad esempio, il critico Sidney Allan si esprime nel numero di Camera Work dell’ottobre 1903, a proposito del Flat Iron Building di New York: Quel pugno in un occhio tra la 23° e Broadway è arte? […] C’è qualcosa di assolutamente originale nei nostri palazzi enormi e sontuosi, nelle colossali centrali elettriche che di notte assomigliano a castelli medievali, nelle lunghe file di case che ricordano le caserme, nei nostri svettanti edifici pubblici dalla facciata stretta e infine in certe costruzioni in vetro e in ferro. In tutte queste forme peculiari si viene sviluppando silenziosamente ma in modo deciso un nuovo stile. […] Esso apparirà come autentica espressione della nostra civiltà moderna allo stesso modo in cui i templi e le statue sono espressione della civiltà greca. Non a caso il Flat Iron Building è stato uno degli oggetti architettonici più fotografati (da Steichen, ad esempio, in una suggestiva visione notturna). Come lo sono state, sin dagli inizi della storia della fotografia, architetture povere o quotidiane (quelle di Evans e Atget, ad esempio), o edifici in costruzione (Stieglitz, New York vecchia e nuova, 1910). E ancora, facendo un passo indietro: la Veduta dalla finestra a Le Gras, che Nicephore Niepce realizza nel 1827 con otto ore di esposizione, non è forse una foto di architettura e paesaggio urbano?
Certo agli inizi i lunghi tempi d’esposizione rendono in qualche modo obbligatorio il tema del paesaggio e dell’architettura. Eppure, la tendenza – particolarmente radicata in Italia - a privilegiare la veduta e la riproduzione delle opere d’arte, nella fotografia dell’Ottocento, è determinata solo in parte dai limiti tecnici del mezzo. A parte l’oggettiva ricchezza di soggetti che il bel Paese è in grado di offrire, non è da sottovalutare il “carattere conservativo della fotografia nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio” (M.Miraglia, 1979). In altri termini, la fotografia ottocentesca opera una selezione del reale seguendo il modello prospettico-rinascimentale della pittura, è giocoforza allora che le strutture architettoniche siano tra i soggetti privilegiati da inquadrare.
Le fotografie degli Alinari costituiscono l’esempio più esplicito e diffuso dell’impronta rinascimentale: camera posta a mezza altezza dell’oggetto da riprodurre, ortogonalità e nitidezza sono caratteristiche imprescindibili delle fotografie prodotte dal laboratorio fiorentino. Ne risulta una riproduzione fedele e decontestualizzata dell’oggetto: non c’è tensione critica nell’occhio del fotografo, ma solo una restituzione meccanica e fedele della realtà che finisce col creare uno stereotipo visivo. Nel caso degli Alinari lo stereotipo fu particolarmente pervasivo e capace di radicarsi nella visione comune. Anche in forza della leadership commerciale che sanno conquistarsi, gli Alinari che “videro e catalogarono per tutti”; e il loro modo di vedere “filtrando nelle strutture percettive di generazioni di Italiani, ha finito per sostituirsi nella loro cultura agli stessi oggetti della visione” (G.Bollati, 1979).
Tuttavia, anche la diffusione di questo paradigma visivo è stata, alla fine, una necessaria presa di coscienza del mondo: “un paese comincia ad essere presente nella memoria quando a ogni nome si collega un’immagine”, dice Calvino ne La città pensata: la misura degli spazi, a proposito degli stereotipi visivi.
Quando poi non si è più in grado di assegnare un nome a ciò che si vede, l’immagine fotografica può supplire a quello che è un vero e proprio slittamento del linguaggio verbale, aprendo la strada a una nuova identificazione della realtà: Agli accostamenti coerenti, tanto favorevoli alle vedute d’insieme, ha fatto seguito un territorio di frammenti e di vestigia. Campi chiusi, campi aperti; abitazioni raggruppate o disperse; città, borghi e villaggi, centri e periferie; ambienti naturali o trasformati: le vecchie categorie della geografia non rendono più conto delle realtà ibride che non hanno neppure un nome (Bernard Latarjet, in Bord de Mer). Sul paesaggio così trasformato da nuovi modelli di insediamento, sul finire dell’era industriale, al punto da non avere più nome, lavora l’esperienza artistica e culturale della Mission Photographique de la DATAR: una grande campagna fotografica voluta dal governo francese e realizzata tra il 1984 e il 1988. A fotografi di diversa provenienza, ma tutti accomunati dallo status di autore, viene chiesto di rappresentare situazioni ambientali specifiche: città, periferie, campagna, coste, riconoscendo loro la massima libertà creativa. La DATAR, tappa storica nella fotografia di paesaggio e architettura, consacra però definitivamente il medium fotografico come strumento culturale dell’epoca contemporanea, e arriva a saldarne l’autonomia artistica con la funzione sociale.
Il modello francese della Mission ha un grande successo, e viene esportato in altri paesi europei. In Italia, ad esempio, viene concepito nel 1988 L’archivio del progetto beni architettonici e ambientali della provincia di Milano: un monitoraggio condotto su circa 184 comuni della provincia del capoluogo lombardo che si conclude, nel 1994, con un consistente corpus di immagini. Al pari della DATAR, questa ricognizione ha riguardato paesaggio e territorio nel suo complesso piuttosto che i singoli elementi architettonici. Ne emerge un corpus più narrativo che catalogatorio in cui, come sottolinea Roberta Valtorta, curatrice del progetto, “è il frammento a vincere, sia dentro il territorio che nella fotografia”.
Nel prevalere del frammento gioca un ruolo importante il fatto che l’Archivio dello Spazio è un’esperienza affidata ad autori eterogenei per età e linguaggio. Questi fotografi hanno evidentemente raccolto e metabolizzato quel ventaglio di stimoli visivi,che nell’arco di un secolo ha portato la fotografia di paesaggio e architettura a superare l’impostazione neutra e rigorosa degli Alinari per approdare a una libertà espressiva pressoché totale in cui l’architettura perde il carattere di monumentalità e si riconnette al contesto: lo spazio urbano. Dai reporter come Berengo Gardin alla scuola di paesaggio italiana (Ghirri, Guidi, Jodice, Basilico, Barbieri, Castella, Fossati), fino agli autori più giovani, i protagonisti dell’Archivio dello Spazio ci consegnano sguardi molteplici e diversi che devono molto a Stieglitz e Strand, Atget ed Evans, Rodcenko e Moholy-Nagy. Ma anche a fotografi che sono loro più vicini – nel tempo e nella geografia – come Paolo Monti e Giuseppe Pagano. Il primo, autore di un accurato lavoro di “ricostruzione” dell’immagine del centro storico di Bologna negli anni ’70; il secondo, architetto e direttore di Casabella, fautore del definitivo superamento dei moduli tradizionali elaborati dagli Alinari.
In un simile pluralismo di voci, alcuni fotografi si distinguono per una coerenza di visione e di ricerca. Gabriele Basilico, che sin dalla fine degli anni ‘70 si interessa al paesaggio industriale e alle aree urbane, è uno di questi. Nello stile di Basilico documentazione e invenzione trovano una sintesi di grande equilibrio, anche se lo stesso autore si definisce prima di tutto un documentarista: mi sforzo di mostrare una realtà comprensibile, riconoscibile. Non cerco di trasformarla: lavoro sul reale visibile, ma a volte il reale visibile non è immediatamente percepibile e la fotografia può aiutare a rivelarlo.
Il reale visibile su cui Basilico comincia ad esercitare il suo sguardo è dato dalla Milano industriale: i Ritratti di abbriche, realizzati tra il 1978 e il 1982, hanno il valore di un manifesto programmatico. Con questo lavoro Basilico dichiara il suo interesse per l’homo oeconomicus, la sua storia, le tracce concrete che lascia sul mondo. Prima fra tutte quella dell’urbanizzazione, metamorfosi dell’insediamento che il fenomeno dell’industrializzazione ha portato con sé. A testimoniare questa intrinseca connessione nelle immagini di Basilico la dimensione del produrre e quella urbana si intersecano e sovrappongono, rintracciate nelle periferie, nei porti, nei siti industriali, nelle aree ibride che si stendono tra città e campagna (Sezioni del Paesaggio italiano, 1997), nei quartieri di nuova edificazione delle città (Palermo 1998). Solo come quinta, quasi incidentale, è presente la natura. A proposito di Porti di mare, progetto fotografico del 1990 sulle realtà portuali europee, Basilico dice: il lavoro di Porti di mare è dedicato ai luoghi di confine tra terra e acqua, ma il luogo vero, quello dove nasce e si costruisce la visione, è figlio della cultura industriale, celebrato dall’iconografia delle fabbriche, dal movimento delle navi, e dallo spettacolo del grande scenario cantieristico, dove mare e cielo hanno la funzione di sfondo. Tuttavia, chiamato a partecipare – unico italiano – alla Mission DATAR, Basilico si apre al confronto col paesaggio. Le porte immaginarie che i fili elettrici disegnano sull’orizzonte in Le Crotoy e la veduta contemplativa, ma carica di tensione sentimentale, di Le Treport, possono forse considerarsi immagini simbolo di una deriva nella dimensione dell’infinito. Lo sguardo lento, profondo, che attende e medita per conoscere il luogo, e lo abbraccia per comprenderlo, si colloca così in un punto di visione non ulteriormente perfettibile: da lì, e solo da lì, la comprensione emotiva che Basilico ha del luogo, e il luogo stesso, si saldano indissolubilmente nella forma. A tutto, alla mancanza di ordine e di gusto, anche ai “fatti urbani” più mediocri, la fotografia di Basilico restituisce un senso.

[1] ad esempio USE, Uncertain State of Europe: ricerca indiziaria sulle trasformazioni del territorio europeo contemporaneo presentata in occasione di Mutations, Bordeaux, 2000.

FOTO 1 > GUIDO GUIDI, Martesana, Cologno Monzese, 1991
FOTO 2 > GABRIELE BASILICO, Milano, 1998
FOTO 3 > EUGÈNE ATGET, Rue Grenier-sur-l’Eau, Parigi, 1900

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