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ARTICOLI > NUMERO 00 > GENNAIO/MARZO 2004

SERGEY BRATKOV di Roberto Bettinelli

Esponente della nuova fotografia dell’est e rappresentante del padiglione russo all’ultima biennale veneziana, Bratkov dilapida il dna tragico realistico dell'arte russa novecentesca e inserisce il dato ironico in uno scenario di deriva morale. Nelle sue fotografie una sensualità di pura esposizione, acclamata negli effetti sociologici di evasione e stordimento, si dichiara unica modalità di esperienza del reale, senza diventare monumento.

photo La fotografia ci restituisce una realtà esangue, scarnificata, ridotta all’essenza dell’icona, che vive dell’affinità con l’esaurimento fisiologico della vita e impone il senso di una spettrale nostalgia del reale. Un’arte, quella della fotografia, che nasce come strumento per smaterializzare la realtà in modo da vivificarla e riproporla oltre i termini di una temporalità funebre.
Sergey Bratkov lavora sull’arresto del tempo nell’immagine fotografica, solidifica in una dilatazione statuaria l’ambizione estetica delle giovani ragazze russe che ritrae ed esteriorizza la tensione verso l’occidente del suo popolo, contagiandone l’unico ideale rimasto, la bellezza etnica, con la corrosione dell’ironia. L’artista ucraino agisce nel vuoto di una identità nazionale, edifica monumenti di bellezza al femminile, dove giovani ragazze si travestono da chitarriste, soldatesse, neospose, segretarie in bikini, rinchiuse nella fissità clinica di una immagine che smitizza il senso del sacro della tradizione russa delle icone. Il suo sguardo domina i corpi bloccati, stringendoli in una contemplazione gaudente e definisce una distanza che non è soggezione o venerazione, ma smarrimento di una tensione di fede morale e spirituale. È uno sguardo inclinato, spesso dal basso verso l’alto, che interiorizza l’approccio delle giovani vittime di una cultura perduta verso il mito dell’occidente, ma al tempo stesso inserisce il commento caustico dell’ironia.
L’omologazione del soggetto è anche qui dilagante, non esistono differenze palpabili tra l’una e l’altra ragazza, sono soggetti costretti all’interno di espressioni annullate e pose monotone, appiattite nel bisogno dell’esibizione prevedibile. Ma c’è differenza rispetto alle sfingi emaciate e anoressiche di Vanessa Becroft, dove predomina una vocazione ascetica, presentata nei termini assoluti di morte e apparenza, un bivio risolto nella punizione dell’anoressia, vissuta come tentativo ultimo di controllo sugli appetiti di una materia interiorizzata come colpa e imperfezione. La Bercroft isola un’ideale autolesionista di bellezza, una rinuncia del corpo e delle sue leggi di nutrizione elementare, dichiarando l’esistenza di n corpo continuamente minacciato da un perfezionismo opprimente.
Un corpo celebrato nella sua esteriorità e che appartiene ad un mondo ricco che può permettersi di trattare con una integrità soffocante l’obbiettivo massificato dell’apparire. La fotografia di Bratkov scaturisce da una genesi più allarmata e problematica, è un mondo svilito nelle sue ambizioni di forza militare ed ideologica, un mondo perduto, che affiora da un passato di potenza infranta. Da qui l’utilizzo dell’ironia iniettata nel residuo di una gloria remota e improponibile nell’attualità, il corpo come massa rivoluzionaria e compatta, reminiscenza dell’antico regime sovietico, scompare come motivo di una propulsione ideologica e si converte al messaggio commerciale dell’occidente. Ma è un’eredità privata della convinzione di un obbligo supremo di bellezza, in quanto l’economia di sopravvivenza e la frustrazione per la potenza perduta, costringono verso un’ammissione che non può che essere dettata dalla forza corrosiva dell’ironia, conseguenza inevitabile nella situazione epocale di crisi.
I corpi e i ritratti di Bratkov sono beffardi, alimentati da una esposizione cromatica che sembra festeggiare per contrasto la consapevolezza di una sopravvivenza fisica e culturale precaria.
Un’aleatorietà che un altro fotografo ucraino come Boris Mikhailov, col quale Bratkov ha più volte collaborato in passato, ha scelto di significare accantonando l’arma dell’ironia, ma utilizzando stilemi realistici, più conformi a quelli propri dell’arte sovietica novecentesca. Anche qui il vuoto sfiancante di un sistema decomposto, che Mikhailov identifica nella morte biologica, nella distruzione carnale e nell’orrido corporeo, portando l’artista ad isolare le sue figure umane in uno spazio che vale unicamente come attesa di morte. La solitudine dei suoi soggetti viene investita di un destino tragico, proiettando l’uomo nell’eco di distanze sconfinate che lo annullano, come sono quelle del paesaggio dell’ex URSS. Il colore si pronuncia allora come testamento del possibile, estinto nella denuncia di una ineluttabile crudeltà d’esistenza, alla quale l’arte si rivolge come intervento di fedeltà e di umile aderenza sensoriale. Lo spazio di Bratkov invece, è saturo di corpi e volti che affermano una caduta che ha come unica possibilità di rinascita la valorizzazione di un corpo ingenuo ed elementare, in salute e pronto ad essere mercificato, conquistato dalla libertà fasulla del mercato che è comunque maggiore di quella del regime.
Lo squallore viene mitigato dall’ironia, che sancisce la distanza incolmabile dall’idea accettando con passività gli esiti della sconfitta umana. La tensione fallita ha riportato il corpo ad essere ammirato nella sua superficialità, banalizzato e non temuto, né glorificato, ma acceso di una autonomia beffarda che irride agli sviluppi irrisolti e mai conseguiti dell’utopia.

FOTO 1 > Guitarists (III), 2000, C-print on aluminium, Edition of 5, 40x30 cm
FOTO 2 > Army Girls (IV), 2000, C-print on aluminium, Edition of 5, 70x100 cm
FOTO 3 > Secretaries (IV), 2000, C-print on aluminium, Edition of 5, 40x30 cm

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