È UNA FOTOGRAFIA(1) di Roberto Maggiori

Le stravaganti alchimie dei nostri tempi...

pubblicato il 5 ottobre 2008
Da circa un decennio la fotografia è balzata agli onori delle cronache italiane ed è salita sui palcoscenici d’avorio – per dirla alla Dylan Thomas – diventando trendy, soprattutto grazie ai risultati delle aste, naturalmente estere. Questo doveroso e tardivo “riconoscimento” offre però il fianco ad alcune amare considerazioni, trattandosi più di un riflesso del mercato internazionale che non la naturale espressione di una seria e radicata cultura fotografica nazionale.
In Italia, si contano sulle dita di una sola mano le gallerie private e i Musei statali che fanno della proposta fotografica il loro punto di forza e di qualità. Eppure le Fiere d’arte sono piene di fotografie che si espongono e si vendono a suon di migliaia di euro, i festival fotografici nascono come funghi e non c’è più galleria che possa definirsi seria ed ambire a un mercato internazionale che non abbia tra le sue proposte un’offerta fotografica. La fotografia è allora finalmente apprezzata anche in Italia? Non è proprio così, e vediamo perché.
All’inizio di questo articolo ho sottolineato come questa attenzione alla fotografia non sia altro che il riflesso di un atteggiamento ampiamente radicato all’estero (soprattutto nel Nord Europa e negli Stati Uniti), da poco adottato anche da noi perché appagante in termini commerciali. Le conseguenze di un approccio alla fotografia tanto superficiale non sono da trascurare, visto che il risultato è un’offerta espositiva spesso scadente; una critica quasi sempre raffazzonata, mutuata solitamente da un più generico ambito artistico o addirittura amatoriale; e un’offerta didattica molto spesso arrangiata. Del resto è ovvio che per fronteggiare un’improvvisa e debordante richiesta di pubblico e mercato, i galleristi, così come i politici che amministrano la cosa pubblica, possano solo improvvisare una qualche strategia atta a cavalcare il trend alla bell’e meglio.
La colpa di questa inadeguatezza può essere solo in parte imputata ai galleristi, perlopiù semplici mercanti dai quali non ci si può sempre aspettare competenze specifiche, che hanno però responsabilità che non sono sottovalutabili. La pretesa d’operare in ambito culturale dovrebbe infatti richiedere un minimo d’attenzione alla questione filologica per poter considerare il sistema dell’arte, che si occupa anche di fotografia, credibile e apprezzabile a livello internazionale. In Italia questo Sistema arriva invece a un paradosso come quello di proporre un’evidente fotografia (ossia un’impronta visiva del reale stampata su un supporto) affermando, nell’intento di valorizzarla, che non si tratta in effetti di fotografia, ma di una non meglio precisata forma d’“Arte”, come se arte e fotografia non possano coincidere. Tralasciando nel dettaglio l’annosa, quanto quasi sempre futile, distinzione tra i “fotografi artisti” e gli “artisti che usano la fotografia” – retaggio di un discorso sul fotografico obsoleto, di cui ho ampiamente trattato sul n.9 della rivista Around Photography – vorrei ora soffermarmi un momento su questa curiosa “ridefinizione” del fotografico.
L’argomento non interessa solo i galleristi più sprovveduti, perché in una considerazione confusa come questa è incorso anche il noto critico d’arte Achille Bonito Oliva, parlando delle – secondo lui non – fotografie di Christopher Williams esposte recentemente alla GAM di Bologna (vedi Around Photography n.11). Questa fantasiosa concezione del fotografico, sposata da un critico per certi versi colto come Bonito Oliva, fa riflettere e preoccupare sullo stato della cultura fotografica in Italia(2). Bisognerebbe a questo punto intendersi su cosa sia una fotografia e sulle molteplici forme e propensioni che può incarnare, anziché tracciare linee di demarcazione tanto semplicistiche. Perché sono ormai rimasti solo i fotoamatori del dopolavoro ferroviario e i critici d’arte (italiani) ad intendere la pratica fotografica, gli uni nel bene, gli altri nel male, esclusivamente come il “bello scatto” fine a se stesso.
Ecco, bisognerebbe allora dire più spesso, che la fotografia è, generalmente e non occasionalmente, piuttosto un formidabile strumento di sollecitazione culturale e non una semplice emulsione impressionabile con elementi decorativi. Uno strumento che ha permesso campagne di rilevazione del territorio che hanno poi influenzato, suggerendo nuovi punti di vista, lo sviluppo urbano concreto messo in atto dagli architetti. Lo stesso strumento che ha insinuato nella coscienza collettiva nuove riflessioni sulla società, sulla propaganda, sul modo di intendere e vedere la realtà, o costruito messe in scena fantastiche che hanno influenzato l’immaginario collettivo di tutto il pianeta. Senza considerare che pratiche come la Body e la Land Art, esistenti e concepibili solo grazie alla ripresa fotografica, rendono la fotografia un elemento costitutivo imprescindibile di queste performance e non un semplice strumento di documentazione. La fotografia sin dalla sua nascita ha dunque suggerito un nuovo modo di proporre e valutare le cose in ambito artistico. Un modo semplice ed efficace come nessun altro per indicare quello che ci circonda, per sollecitare nuove questioni e problematiche attraverso quello che Duchamp definirà “già fatto”, settant’anni dopo la nascita della “meravigliosa invenzione”.
Le lacune evidenziate, che sono culturali, prima ancora che fotografiche, sono un tipico retaggio nostrano, e qui entrano in gioco gli amministratori della cosa pubblica. Nel corso degli ultimi vent’anni, La politica del Bel Paese ha devoluto i pochi spiccioli dispensati per la cultura, quasi esclusivamente a tutela del patrimonio storico artistico, o nel cercare i numeri di un pubblico attratto più da seduzioni spettacolari che di reale interesse culturale. Un atteggiamento colpevole e irresponsabile, sia laddove frutto di intenzione, sia dove conseguenza di incapacità nel valutare le qualità in campo da valorizzare. Il dazio più oneroso è stato così pagato dalla ricerca contemporanea e quindi anche dalla fotografia.
Probabilmente il motivo per cui qui da noi la fotografia è ancora in alcuni casi bistrattata, o accolta sotto mentite spoglie, dipende dal fatto che i corsi che si occupano d’Arte hanno solo da qualche anno accolto la fotografia come materia imprescindibile di ogni serio piano di studi che voglia affrontare l’ambito artistico, sia esso storico o contemporaneo. Stiamo dunque colmando, seppur con un ritardo notevole, questo gap che abbiamo con il resto del mondo occidentale. Ci si è finalmente resi conto che non è più possibile, per un critico che voglia definirsi credibile, ignorare l’influenza che la fotografia ha avuto sull’Arte dai tempi di Courbet e dell’Impressionismo, fino al Costruttivismo, al Bauhaus, alle Avanguardie Storiche, all’Iperrealismo, al New Dada, alla Pop Art, al Minimlismo e all’Arte Concettuale. La Storia della Fotografia, nei suoi molteplici aspetti, è dunque parte integrante ed ineludibile, della Storia dell’Arte.
All’estero la cosa è da tempo assodata, basti pensare ai numerosi critici che hanno costruito la propria credibilità proprio sullo studio della fotografia arrivando in molti casi a dirigere importanti Dipartimenti e Musei d’Arte di rilevanza internazionale. Il tutto a ovvio vantaggio di un pubblico meno sprovveduto e di una conseguente offerta espositiva qualitativamente ancora lontana dai nostri standard, anche grazie ad oculati finanziamenti da noi perlopiù inesistenti, ma questo è un altro discorso...

NOTE
(1) Quest’articolo è stato originariamente pubblicato, con qualche piccolo taglio e senza la nota seguente, sul numero 99 di Queer, il supplemento libri domenicale del quotidiano “Liberazione” del 25/3/2007.

(2) Bonito Oliva è in buona compagnia visto che ancor più recentemente un importante critico come Germano Celant in una conferenza tenuta insieme a Italo Zannier il 28 settembre 2008, durante il Festival bolognese Artelibro, ha dimostrato ingenuità altrettanto imbarazzanti in materia fotografica. Celant ha diviso la Storia della Fotografia in due periodi distinti, quello legato alla documentazione della realtà e quello successivo iniziato solo alla fine degli anni ‘60 del Novecento, in cui si passa dal “soggetto registrato, al soggetto inventato”. Periodo dunque in cui secondo Celant in fotografia c’è finalmente uno slittamento dalla mera documentazione alla creazione di nuove realtà.
A questo punto viene da chiedersi se Celant conosca la Storia della fotografia e autori, addirittura di due secoli fa, come la Contessa di Castiglione che negli anni ’60 dell’Ottocento anticipava per certi versi l’uso della fotografia reso poi celebre da autori come Luigi Ontani; o le realizzazioni fantastiche della stranota Julia Margaret Cameron che di messe in scena fantastiche se ne intendeva. Potremmo ovviamente continuare per pagine intere citando altri autori come Claude Cahun (per approfondire si veda Carpanini, Quinlan 2008) che già nel 1915 realizzava operazioni fotografiche per molti versi paragonabili a quelle fatte da Cindy Sherman solo 50 anni dopo; o Robinson e Rejlander che sempre negli anni ’60 dell’Ottocento mettevano in scena realtà “fittizie” che oggi potremmo definire alla Jeff Wall. Senza considerare, infine, che ogni fotografia è sempre una (ri)costruzione della realtà. Fortunatamente in questa occasione Zannier riconduce, punto su punto, la conferenza sul giusto binario evitando la divulgazione di informazioni campate per aria. Tornando al nostro discorso, se questo è il livello della conoscenza in materia fotografica da parte di due noti ed esemplari critici d’arte, è facilmente intuibile quali siano le reali conoscenze del campo di cui dispongono la maggior parte degli addetti ai lavori provenienti dall’ambito dell’arte contemporanea che approcciano la madre di tutti i media tecnologici. Ovviamente non mancano anche critici ferrati in materia, ma sono ancora in netta minoranza e spesso in seconda linea rispetto a quelli che potremmo definire “approssimativi”.
Qui è possibile ascoltare la conferenza citata.
A Celant, Bonito Oliva e ai professionisti della cultura visiva che desiderino approfondire la conoscenza di quanto sopra accennato, consigliamo per cominciare un agile libro edito dalla nostra casa editrice intitolato Le origini contemporanee della fotografia, scritto da Federica Muzzarelli.


FOTO 1 > LEE FRIEDLANDER, Los Angeles, 1965
FOTO 2 > WALKER EVANS, License Photo Studio, 1934
FOTO 3 > ANNA STRAND, It is a photograph, 2005
FOTO 4 > CHRISTOPHER WILLIAMS, Kodak Three Point Reflection Guide, 2003
FOTO 5 > CINDY SHERMAN, Untitled (Woman in Sun Dress), 2003
FOTO 6 > CLAUDE CAHUN, Claude Cahun con L'Image de la Femme, c. 1915