LA FOTOGRAFIA CHE NON C’È di Federica Muzzarelli

Due brevi paragrafi tratti dall'ampio capitolo "Storia della fotografia manicomiale" pubblicato in "Nonostante la vostra cortese ospitalità..." (Quinlan 2009).

pubblicato il 5 febbraio 2009
Il volto invisibile di Ida Irene Dalser
Il paradosso di una fotografia che non si trova più, o che probabilmente non si vuole più mostrare, può rendere una situazione così affascinante e inquietante da offrire spunti e stimoli molto interessanti a chi debba ragionarci sopra. La memoria cancellata, la traccia evanescente, l’occultamento identitario rappresentano infatti tante ghiottissime occasioni di analisi e di riflessioni sulle potenzialità concettuali della fotografia in quanto oggetto che nasce sempre per raccontare, per rammentare qualcosa o qualcuno. Quando poi, come in questo caso, l’arte e la fotografia si intrecciano con la scienza e con la storia recenti, allora la vicenda finisce per collocarsi davvero in una dimensione di estrema curiosità, a metà tra il ragionamento estetico e la ricognizione rivelativa del nostro passato.
La fotografia che sembra non trovarsi più è quella di Ida Irene Dalser, amante e moglie di Benito Mussolini, presunta pazza e come tale soggetta a diversi ricoveri manicomiali, prima a Pergine in Valsugana e poi nel veneziano San Clemente, dove Ida arrivò il 17 agosto 1926. La sua storia, scomoda, dolorosa, pericolosa allora e forse ancora oggi, spiega perché i suoi ritratti fotografici manicomiali, dopo la mostra curata da Franco Cagnetta alla Biennale del 1971, pare davvero che siano diventati irreperibili.(1) Era stata ricoverata con diagnosi di “sindrome paranoide in soggetto nervoso” e, dopo un ulteriore trasferimento tornò a San Clemente nel 1935, dove morì il 22 dicembre 1937 per emorragia cerebrale. Estetista di origine trentina, la Dalser ebbe la sfortuna di essere compagna, e moglie col solo rito religioso (e prima dei Patti Lateranensi), di un giovane giornalista incontrato a Milano che di nome faceva Benito Mussolini.(2) I due ebbero una storia d’amore e pare che Ida, proprietaria di un avviato “Salone Orientale di Igiene e Bellezza”, lo aiutò anche nell’impresa della fondazione de “Il popolo di Italia”. Ida e Benito ebbero anche un figlio, inizialmente riconosciuto da Mussolini, che chiamarono Benito Albino. I problemi per Ida e il figlio Benitino iniziarono proprio con l’ascesa al potere del futuro Duce d’Italia. Quando all’energica e pretenziosa Dalser, negli affetti messa già da parte in favore di Donna Rachele, venne addirittura proposta una “liquidazione” con alcuni miseri assegni di sostentamento, Ida cominciò a tempestare il Duce di lettere ossessive e di richieste di riconoscimento del suo ruolo e della sua identità. Ma Mussolini non poteva certo sopportare che una donna coraggiosa e testarda, e un bambino che portava il suo nome, intralciassero la sua carriera e la sua immagine pubblica. Dopo l’ennesimo tentativo di forzatura di quel silenzio crudele, Irene cercò anche di parlare ad un ministro in visita a Trento, ma quell’atto “violento” le costò l’arresto da parte della polizia e l’internamento coatto in manicomio all’insaputa dei parenti. Da quel momento, sorvegliata anche dalla polizia, tentò invano di dichiararsi sana di mente e vittima di un delitto politico, ma la camicia di forza, le terapie violente, i falsi certificati e le cartelle cliniche compiacenti al volere del Duce impedirono che la sua sorte cambiasse direzione.
Purtroppo anche il destino di Benitino fu ugualmente tragico e segnato da quella parentela troppo impegnativa: morì nell’estate del 1942 per “marasma” nell’ospedale psichiatrico di Mombello. Per un certo tempo protetto e seguito in collegio negli studi da Arnaldo Mussolini, si ritrovò poi solo e, quando Arnaldo morì, addirittura adottato da un certo Bernardi. Con la madre in manicomio che continuava ad “arrecare disturbo” con minacce e assurde pretese, e un padre troppo potente per lasciarlo testimone scomodissimo di quella relazione da dimenticare, Benitino prima salpò con la marina militare per l’Estremo Oriente, poi venne richiamato in patria con la falsa notizia della morte delle madre. E’ così che anche per lui si aprirono le porte di un manicomio e di una terapia a base di insulina che gli causarono nove stati di coma. Fino alla morte definitiva.
Il fatto che le foto manicomiali riferibili a queste vite sfortunate non si riescano più a trovare, che le immagini che racconterebbero l’ultima parte della loro compromettente esistenza siano attualmente non rintracciabili, ci concede di ragionare anche tramite supposizioni e suggestioni non comprovabili. Così nel compendio visivo di questa piccola storia della fotografia manicomiale c’è un buco in relazione al nome di Ida Irene Dalser, anche se un po’ perversamente è forse proprio questo buco visivo che rende la sua storia ancora più intrigante.
Quelle foto mancano forse perché mostrerebbero quello che la fotografia non può nascondere.
Forse perché l’ossessionata ricerca visiva dei segni della malattia mentale, linfa vitale della fisiognomica manicomiale, rischierebbe di mostrare sul viso della Dalser tutta la sua ambigua e contraddittoria inconsistenza.

Augustine, la star della Sâlpetrière
Nel bel mezzo di quel precario equilibrio che esiste tra rigorosi metodi scientifici, primati della razionalità, obiettiva osservazione della natura da un lato, e tentazioni d’evasione fantastica, fughe della mente e rapimenti onirici dall’altro, si situano tanto la storia della fotografia che quella di Augustine.
L’Ottocento è il secolo perfetto per l’esplosione di entrambi i fenomeni: è durante il suo corso infatti che si istituzionalizza un modo di guardare al mondo che può cadere in derive ottuse e demagogiche, come accadde ai seguaci del positivismo e ai sostenitori di una sessualità castrante e rimossa di modello vittoriano, ma è anche il secolo lungo il quale i dispositivi ideati dalla scienza (come tutti gli appartenenti alla genealogia del protocinema) subiscono la malìa della spettacolarizzazione e il fascino del mistero e dell’irrazionale. E’ il caso ad esempio dei diffusissimi fenomeni di spiritismo, ma al contempo anche di tutto quel mondo ancora in gran parte oscuro che ruota attorno al corpo e alla sessualità, al peccato e alla tentazione della carne, che diventano oggetti così indagati e praticati da trasformarsi paradossalmente in un vero leit-motiv dell’immaginario fin de siècle. E’ in questo contesto allora che la fotografia, strumento dall’identità ambigua e sospesa, in perenne tentazione tra la natura e l’artificio, tra l’arte e la scienza e tra la verità e la finzione, incontra una figura chiave della storia della Sâlpetrière quale fu Augustine.
Anche lei ambigua e sospesa come la stessa identità fotografica.
Giovane, robusta e imponente, Augustine è un’internata dell’ospedale parigino; è uno dei tanti casi che Charcot studia e confronta per mettere a punto la sua teoria diagnostica sull’isteria. Ma Augustine è così espressiva, così capace di manifestare le sue passioni, i suoi stati euforici o eccitati o convulsi o nevrotici, insomma Augustine è una performer così abile ed esperta da divenire non solo un caso clinico esemplare, ma anche il soggetto più adatto alle riprese fotografiche che lì regolarmente si effettuavano.
Nel 1928 l’iconografia fotografica di Augustine sarà addirittura usata dai surrealisti per illustrare il loro manifesto per Il cinquantenario dell’isteria (tengono cioè conto della data di pubblicazione del secondo volume dell’Iconographie in possesso di Breton). Con i consueti toni dissacranti e anarchici, Aragon e Breton definiranno l’isteria “la più grande scoperta poetica del XIX secolo” e un “supremo mezzo di espressione”, scegliendo di pubblicare per l’occasione le pose “deliziose” di Augustine nelle fasi di invito, erotismo, estasi e scherno.
Certo tra i tanti volti e corpi che costellano l’atlante visivo dell’Iconographie, quelli di Augustine si imprimono con così tanta intensità nella memoria da diventare inconfondibili: l’obiettivo fotografico la scruta mentre, lasciva ed ammiccante, si atteggia seducendo quel dispositivo automatico che la osserva, non facendo però dimenticare che nello stesso istante tanti altri occhi, e umani!, si posavano su di lei. Quelli degli operatori, dei medici, degli psichiatri, degli studenti, dei collaboratori. Tanti occhi avidi e curiosi di seguire le sue evoluzioni, le sue posture da isterica ma anche di giovane donna in un misto di ricognizione scientifica e voyeurismo morboso davvero difficile da districare. Come in ogni attività fotografica del resto.
Augustine diventa il più perfetto esperimento da laboratorio (metafora ideale della filosofia positivista ottocentesca) ma anche la più consumata attrice di una parte già scritta, o che quantomeno tutti si aspettano di veder recitare da lei.
Le allucinazioni e gli incubi che lamentava, i dolori e i disturbi fisici che accusava, le grida e le voci che sosteneva di udire erano gli strumenti fondamentali per le sue performance ospedaliere. La coazione a ripetere, e magari ad accrescere, l’intensità delle emozioni che provocava negli astanti durante i suoi attacchi di corea ritmica la salvano dalla deportazione nei reparti delle incurabili. Lo show deve andare avanti senza incertezze, arricchendosi di gestualità teatrali e pose, contratture, ipereccitazioni muscolari che possano continuare ad essere osservate, analizzate, vivisezionate dall’insaziabile equipe medicale.
Ma la fotografia è indispensabile in ogni ossessivo esibizionismo, in ogni esperienza di voyeurismo esasperato. Così nelle immagini di Augustine, intrigante performer ottocentesca, è davvero difficile distinguere dove sta quel confine cui si accennava sopra, dove inizia la scienza severa e indifferente alle passioni e dove invece un’arte anche bugiarda e dissimulatrice. Certo, per Augustine quello era qualcosa di più di un confine teorico.

NOTE
(1) Una piccola ricerca ha permesso di constatare che il San Clemente non possiede più le cartelle cliniche della Dalser prestate alla Biennale per la mostra curata da Cagnetta. Dopo il loro ritiro forzoso, voluto dai discendenti, se ne sono infatti perse le tracce. L’archivio dell’ex-manicomio di Pergine in Valsugana possiede invece la cartella clinica realizzata per i due ricoveri di Pergine al cui interno vi è copia del diario clinico riferito al primo ricovero veneziano, ma in entrambi i casi non ci sono fotografie annesse. Neppure una ricognizione realizzata dagli attuali responsabili nel Gabinetto Fotografico dell’ex-Ospedale Psichiatrico dI Pergine ha dato qualche risultato. Da segnalare è che nel catalogo della Biennale sono pubblicate due foto “civili” di Dalser e Benitino, mentre i documenti originali manicomiali in mostra sono solo elencati.

(2) Della storia di Ida Irene Dalser si è occupato il giornalista Marco Zeni in La moglie di Mussolini (edizione Effe Erre, Trento 2000). Il regista Marco Bellocchio è invece impegnato a girare un film sulla sua storia dal titolo Vincere. Per il ciclo di Rai Tre “La storia siamo noi” è stato girato il documentario Il segreto di Mussolini.


FOTO 1 > Gianni Berengo Gardin durante la presentazione del libro "Nonostante la vostra cortese ospitalità..."
FOTO 2-5 > D.-M. BOURNEVILLE-P. REGNARD, da Iconographie photographique de la Sâlpetrière, 1879-80