FOTOGRAFIE E ARCHITETTURA di Piero Orlandi
Alleanze e conflitti.
Jacob Riis, “Cityscape”, 1890
“Non c'è dubbio che abbia poco senso ammassare centinaia di migliaia di fotografie in un grande registro nazionale, se gran parte di esse continuano a essere scatti amatoriali privi di gusto estetico […]. E' mia ferma convinzione che il fotografo incapace di apprezzare la bellezza di un'opera d'arte non sarà nemmeno capace di ricreare quella bellezza per l'apprezzamento del pubblico.”(1) Sono parole di Helmut Gernsheim, tratte dal suo libro Focus on Architecture and Sculpture, la cui prima edizione è del 1949. Gernsheim, tedesco di Monaco, fotografo, collezionista e storico della fotografia, lavorò per il National Buildings Record britannico tra il 1942 e il 1945. Secondo la sua opinione, per costruire un buon archivio visivo dei beni culturali e architettonici non servono molte fotografie, ma fotografie ben pensate, prima ancora che ben eseguite; dunque, la semplice necessità documentativa dell'architettura e le fotografie che la certificano si pongono un gradino sotto la fotografia concettuale, soggettiva, d'autore, che esprime una conoscenza pregressa degli oggetti che rappresenta, raggiunta attraverso studi e ricerche preventivi allo scatto.
Nikolaus Pevsner scrisse la prefazione al libro di Gernsheim. Anch'egli tedesco, e come Gernsheim naturalizzato inglese dopo la seconda guerra mondiale, Pevsner fu un grande storico dell'architettura, e soprattutto dell'architettura inglese. E proprio parlando di fotografia di architettura, scrive: “Il potere del fotografo di valorizzare o distruggere l'originale è comunque innegabile. In un edificio la scelta dei punti di vista, degli angoli, della luce è semplicemente ciò che crea lo spazio. Egli può fare apparire la navata di una chiesa alta e stretta oppure larga e tozza – quasi senza tener conto delle sue reali proporzioni. E inoltre, può evidenziare così intensamente un dettaglio da renderlo più convincente sulla lastra che nell'originale.”(2)
Fabbrica Fagus, disegnata da Walter Gropius. Foto Albert Renger-Patzsch
L'architettura è creata dall'architetto, ma se la vediamo attraverso una fotografia è anche creata dal fotografo. Questo dualismo si mostra sin dall'inizio del rapporto tra fotografia e architettura. Già intorno alla metà dell'Ottocento nacquero le prime campagne fotografiche dedicate all'archeologia e ai monumenti nazionali. Nel 1851 si svolse la celebre missione fotografica commissionata dalla francese Commission des Monuments historiques, ma già nel 1849-51 Maxime du Camp, insieme con Gustave Flaubert, aveva compiuto una accurata ricognizione dei monumenti archeologici in Egitto, Nubia e Terra Santa, per conto del Ministère de l'Instruction Publique. Da noi i fratelli Alinari iniziarono a operare a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, e tra i primi reportages fotografici di grande respiro c'è quello dedicato ai grandi lavori del piano del Poggi per Firenze capitale(3).
Da sempre la fotografia dialoga con le teorie urbanistiche ed architettoniche del momento, e contribuisce a chiarirle e a diffonderle. La pratica del dégagement in voga alla metà dell'Ottocento in Francia sulla scorta dei restauri di Viollet Le Duc, fu interpretata in modo perfetto in fotografia da autori come Edouard Baldus, intenti a “liberare” i monumenti dalle addizioni più tarde. Paolo Monti fece qualcosa del genere fotografando i centri storici dell'Emilia-Romagna, e cercando di dare evidenza e leggibilità alla loro eccezionale qualità storico-architettonica, anche a costo di rimuovere le incoerenze o le contraddizioni (cartelli stradali, automobili, manifesti pubblicitari, e perfino persone).
Le Corbusier and Pierre Jeanneret, the Swiss Pavillion, Paris, 1929-1933. Foto Marius Gravot
L'idea di fotografia come documentazione è molto evidente nel caso di Marville, che mostra i cantieri parigini di Haussmann; lo stesso fu fatto a Vienna, quando si demolirono le fortificazioni per costruire la fascia urbana del Ring, e molti altri sono gli esempi in tutta Europa. Ci sono poi casi più sociologici, come la serie pubblicata nel 1890 da Jacob A. Rijs sugli slum del Lower East Side a New York, How the Other Half Lives; o come la Farm Security Administration degli anni trenta rooseveltiani, che raccolse 270.000 negativi di fotografi del calibro di Walker Evans e Dorothea Lange, dedicati alla vita negli spazi rurali.
Dicevamo prima del colossale lavoro sui centri storici fatto da Monti e dalle principali amministrazioni comunali nella prima metà degli anni Settanta in Emilia-Romagna, ma è nota anche l'impresa affidata dal Comune di Bologna un secolo prima ad Odoardo Galli (1859-64) per documentare la realizzazione della linea ferroviaria da Bologna a Pistoia.(4)
Carlo Scarpa, Tomba Brion. Foto Guido Guidi
Se vogliamo parlare dell'uso della fotografia come mezzo di conoscenza e riflessione progettuale da parte degli architetti, vengono alla mente i casi di Antoni Gaudì(5), e da noi di D'Andrade o dei fratelli Coppedè a fine Ottocento, ma sempre con l'intento di disporre di repertori a cui attingere per la soluzione di problemi compositivi o per la scelta di dettagli costruttivi. Gropius e Le Corbusier nella prima metà del Novecento raccoglievano in modo analogo fotografie di architetture industriali - soprattutto silos di grano – come fonti di ispirazione o riflessione critica.
Ma tutti questi casi testimoniano pur sempre di un uso della fotografia subalterno alla fase progettuale. Più innovativo, anche se molto didascalico, lo sforzo dell'urbanista inglese Gordon Cullen, che dedicò un suo libro del 1961, Townscape, a un uso più interattivo della immagine fotografica con i temi dell'approccio progettuale alla città, ricorrendo a centinaia di schizzi eseguiti sulle foto, che rappresentavano la fonte e il mezzo della elaborazione mentale connessa allo sviluppo del progetto(6).
Architettura di Aldo Rossi fotografata da Luigi Ghirri
Negli anni trenta molti architetti fecero uso del fotomontaggio, ad esempio il gruppo BBPR in Italia, e tra i grandi maestri Mies van der Rohe. Il fotomontaggio si apparenta al plastico, al modello, ha una funzione di controllo, di verifica, sospeso tra disegno e realtà materica, visiva, spaziale. Fu molto usato dall'architettura radicale negli anni Sessanta, perché era un ottimo strumento per costruire immagini visionarie, provocatorie, improbabili ma affascinanti.
Casa unifamiliare m+r ad Altedo di Malalbergo (BO). Foto di Giulia Ticozza
Però l'architetto vive la fotografia soprattutto come documentazione e promozione della propria opera. Alcuni casi sono famosissimi: Walter Gropius e Albert Renger-Patzsch, Le Corbusier e Marius Gravot o Lucien Hervé, Armando Salas Portugal e Luis Barragan, Julius Shulman e Richard Neutra, Guido Guidi e Carlo Scarpa, Luigi Ghirri e Aldo Rossi, e così via. A prescindere dai casi dei grandi autori come quelli citati, la fotografia dell'opera dell'architetto realizzata per le riviste di settore o per le pubblicazioni specialistiche cede troppo spesso a ragioni formalistiche, intente a riprodurre le virtù compositive, volumetriche, se non addirittura grafiche dell'edificio, e poco attente alla sua dimensione umana e sociale. Quasi mai vengono ritratte le persone che fanno uso degli ambienti, ancor meno gli oggetti e le attrezzature che possono “sporcare” la qualità dello spazio rappresentato. L'assenza dell'uomo è una costante di un certo modo di rappresentare l'architettura, la città, l'ambiente. Secondo alcuni autori l'assenza delle persone è addirittura un modo per farne sentire la presenza anche più intensamente. Di questo parere era ad esempio Ugo Mulas, che parlava, in un suo celebre libro(7), di un potere evocativo di ciò che è assente dall'immagine, un potere proprio della fotografia; e di questo parere era anche Gabriele Basilico, che ha sempre fotografato le città prive di abitanti.
Fotografia di Francesco Neri
Veniamo infine a un caso contemporaneo, il concorso a inviti che ha portato alla individuazione di due giovani fotografi – Giulia Ticozzi e Francesco Neri – incaricati di descrivere i dieci edifici selezionati per il 2012 dal bando dell'IBC, e pubblicati dall’Editrice Quinlan nel 2013. Non sfugge, e anzi si enfatizza, questa opposizione nello stile della rappresentazione dell'architettura di cui abbiamo appena parlato. Francesco Neri la lascia in uno sfondo appena intuibile, Giulia Ticozzi ne dà una visione più implicata con l'umanità. Neri, negandola, la rende oscuramente presente (come Mulas dice delle persone), Ticozzi invece la accetta e forse la esalta, come un elemento - tra gli altri, ma irrinunciabile - del nostro quotidiano.
(1) Helmut Gernsheim, Messa a fuoco di architettura e scultura, a cura di Angelo Maggi, Umberto Alleandi & C., Torino, 2012, pp. 77-78.
(2) Nikolaus Pevsner, Prefazione a Gernsheim, op. cit., pag. 53.
(3) Giovanni Fanelli, Storia della fotografia di architettura, Laterza, Roma-Bari, 2009.
(4) Fanelli, op. cit., pag. 130.
(5) Fanelli, op. cit, pag. 390.
(6) Gordon Cullen, Il paesaggio urbano. Morfologia e progettazione, Calderini, Bologna, 1976 (ed. origin: Townscape, The Architectural Press, London, 1961).
(7) Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino, 1973.
Approfondimento pubblicato in "Una geografia dell'Architettura", Editrice Quinlan, 2013.
al seguente link è possibile scaricare gratuitamente l'intero libro.