INTERVISTA A GABRIELE BASILICO a cura di Luisa Siotto

Vogliamo ricordare Gabriele Basilico, scomparso prematuramente lo scorso 13 febbraio, pubblicando per la prima volta on line questa bella e approfondita intervista rilasciata nel 2004 alla rivista "Around Photography".

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Gabriele Basilico nel suo studio milanese. Foto Roberto Maggiori

Luisa Siotto: Iniziamo il nostro discorso dal motivo per cui preferisci tenere separato il tuo lavoro professionale da quello di ricerca.
Gabriele Basilico:
È una vecchia divisione di ambiti che forse oggi ha perso un po’ senso. Comunque diciamo che, per un fotografo come me, che si è sempre interessato alla città, quando si lavora per una committenza specifica, dove la richiesta è quella di restituire al meglio la fotogenicità di un’architettura, spesso si è costretti ad allinearsi a stereotipi visivi. Naturalmente parlo della fotografia di prospetto, delle riprese a 45 gradi, delle fotografie di dettaglio, dell’attenzione al rapporto volumetrico e all’insieme di regole consolidate che tendono a magnificare l’architettura. Si tratta insomma di assecondare la pressione che le riviste di settore fanno da sempre, soprattutto nella fotografia d’interni. Da queste riviste è richiesta prevalentemente una fotografia frontale. Se il fotografo si pone in diagonale – come a volte ho cercato di fare nel passato – può essere anche rimproverato. È il linguaggio tradizionale che l’architettura ha sempre usato per arrivare velocemente alla comprensione del messaggio proposto, che è poi quello di pubblicizzare una certa idea dello spazio.
20 anni fa con Bernard Tschumi, per il suo progetto le “FOLIES” al Parc de la Villette a Parigi, mi è successo di vedermi recapitare un fax con le indicazioni precise di come andava fotografata la sua architettura: le regole erano quelle della classica rappresentazione ortogonale e prospettica, molto vincolanti per il fotografo (filtri, uso del colore, stampa, ecc.).
A volte si può usare un linguaggio innovativo anche in architettura, penso alle fotografie di Olivo Barbieri, con una messa a fuoco differenziata. Può accadere quando la comunicazione dell’architettura si apre al linguaggio dell’arte. In questi casi il risultato che si vuole ottenere, anche da parte della committenza, è quello di una dichiarata spettacolarizzazione dell’oggetto fotografato. Convivono sia un modo convenzionale di osservare, tradurre e affrontare la rappresentazione dell’architettura, legato a uno schema classico, sia un modo diverso che deriva da altre esigenze narrative, progettuali o poetiche, ma accettato comunque dalla committenza. Alcuni fotografi negli ultimi anni hanno ricercato una mediazione tra questi due aspetti apparentemente distanti del nostro lavoro, e la cosa mi sembra molto interessante.

LS: Succede anche nelle riviste di moda, dove molto spesso le location scelte per i servizi fotografici si rifanno all’ambito della ricerca fotografica contemporanea. E succede spesso che ciò che viene pubblicizzato, per esempio un vestito, passi in secondo piano rispetto all’immagine nel suo insieme.
GB:
La moda è tra gli ambiti in cui un fotografo può lavorare spaziando nella ricerca, quello dove si può operare con maggiore libertà. Negli ultimi anni abbiamo visto spesso delle oscillazioni nel gusto e nel linguaggio che passano dall’arte alla moda con una velocità e simultaneità inusitata, penso per esempio a Tillmans e ad altri fotografi che vengono prontamente imitati. Una caratteristica della moda, a volte un po’ cinica, è quella di metabolizzare velocemente il linguaggio delle tendenze artistiche e di riprodurlo senza un opportuno processo critico.

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Gabriele Basilico nel suo studio milanese. Foto Roberto Maggiori

LS: Se penso a quello che è il dibattito sull’architettura contemporanea, non certo in ambito accademico, ma in quello della ricerca e della sperimentazione, vedo che si sottolinea continuamente l’insufficienza dei modi di rappresentazione convenzionale per restituire le trasformazioni dovute ai fenomeni urbani in atto. Questi fenomeni influenzano l’architettura, laddove si stanno ripensando tipologie abitative adeguate alle nuove esigenze del vivere contemporaneo. Come mai le trasformazioni che investono l’habitat, non rappresentano motivo di interesse per le riviste del settore?
GB:
Hai ben citato l’habitat, perchè proprio sul tema del modo di vivere e di abitare, si sono sviluppate tendenze forti nella fotografia di ricerca che poi si intersecano con quelle in atto in alcuni ambiti dell’arte contemporanea. Per quanto riguarda la fotografia di architettura, la sensazione è che i fotografi siano messi in soggezione dalla ‘seriosità’ della cultura architettonica che considera ogni opera di architettura come se fosse un monumento al quale si deve portare eccessivo rispetto: il linguaggio è fortemente controllato, sia per la scelta dei punti di vista, che per il taglio dell’inquadratura e per il modo di rappresentazione. Ci deve essere insomma molta continuità storica e retorica nella rappresentazione.
Nella fotografia di interni le regole sono ancora più precise. Bisogna attenersi alle direttive della committenza, perciò le immagini non vanno al di là di un rigore geometrico e di una sobria eleganza, di un equilibrio spaziale dove tutto è riconoscibile. Se si guarda l’architettura come una sorta di composizione astratta, questo approccio risulta poco efficace o addirittura contraddittorio, perchè stride col fatto che gli oggetti possiedono già delle forme e devono imporle nello spazio. Per quanto riguarda la disponibilità alla sperimentazione fotografica che esiste nella fotografia di moda, ricordo che alcuni anni fa Alberto Aspesi ha commissionato una campagna pubblicitaria a Robert Frank; e ovviamente non gli ha chiesto di fare fotografie di moda convenzionali (che Frank non avrebbe mai accettato di fare), ma gli ha portato giacche e camicie, e gli ha semplicemente proposto di fare quello che voleva. Robert Frank ha appeso queste camicie a un comune filo della biancheria nella sua modestissima casa in Nuova Scozia, sulla costa nord dell’Atlantico, in un ambiente duro e selvaggio, e poi le ha fatte indossare a due amici comuni. Il risultato è stato che nelle fotografie utilizzate poi per la campagna, le camicie non si vedono quasi. Questo è un caso interessante, forse un po’ estremo: un industriale che decide di investire centinaia di milioni (non tanto per il fotografo, quanto per il costo della campagna mondiale) per avere un’immagine il cui contenuto-merce non è quasi riconoscibile.

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Milano, 1980

LS: Dal discorso fatto finora emergono due aspetti. Uno è quello dei vincoli di una committenza priva di cultura fotografica....
GB:
Dipende da come un fotografo si pone nei confronti della committenza e della disponibilità di entrambi. Per quanto mi riguarda posso dire che ho un atteggiamento diverso quando fotografo un edificio rispetto a quando fotografo un luogo. Di fronte a un’architettura mi sento di dover essere fedele alle regole accademiche e alle regole classiche della rappresentazione. Questo però non vuol dire che faccia delle fotografie che mi interessano di meno.
Quando invece sono di fronte a uno spazio dove diversi oggetti si compongono tra loro, facendo intravedere delle nuove relazioni spaziali, allora mi sento più coinvolto. In sintesi, quando l’oggetto è isolato, quasi astratto, sono meno stimolato. Spesso cerco di superare questa differenza facendo sì che le fotografie di oggetti diventino fotografie di luoghi. Cerco un campo di ripresa più ampio.

LS: Parlami del rapporto tra l’uso del bianco & nero e del colore. È chiaro che nessuno può dire veramente perché preferisca lavorare...
GB:
Quando hanno chiesto a Robert Frank “perchè lei fotografa in bianco & nero?” sembra che lui abbia risposto: “ma che domanda è? Mi sembra evidente che il bianconero esprima simbolicamente la tensione tra luce e tenebre, tra vita e morte, che caratterizza da sempre la storia dell’umanità”. Per me il b/n non è legato a questa interpretazione teatrale della vita, perlomeno non nei termini espressi dal grande maestro. È piuttosto un linguaggio che è diventato lo strumento fidato nel tempo, fin dalle mie prime fotografie, che deriva probabilmente dal fascino subito dal lavoro dei grandi fotografi che ho conosciuto al tempo, come per esempio la Londra di Bill Brandt.

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Berlino, 2000

LS: Nella fotografia americana c’è una ricerca anche sulla densità del colore. Era una sorta di linguaggio nuovo, che a qualcuno faceva dire: il mondo è a colori, è giusto rappresentarlo così com’è. Nella visione comune pensi invece che esista una rivalutazione del b/n?
GB:
Io ho iniziato col bianco e nero, come quasi tutti i fotografi della mia generazione. È stata determinante la mostra sui fotografi americani, “New Topographs”, perchè si scoprisse un uso del colore fuori dagli schemi e dagli stereotipi della fotografia a colori convenzionalmente usata, soprattutto dai periodici illustrati e dalla committenza commerciale. È da quel momento che il colore ha rivelato nuove possibilità espressive e narrative, diventando un linguaggio universale. Ma è anche in quel momento che a me è sembrato che tra il colore e il b/n non ci fosse molta differenza. Il colore non si imponeva sul b/n: diventava semplicemente un’opzione legata alla creazione e alla complessità dei linguaggi. In Italia l’interesse per il colore è legato, a mio avviso, soprattutto all’influenza che quei fotografi americani hanno esercitato sulla nostra generazione. Il successo della fotografia a colori ha reso molto vitale la ricerca fotografica sul paesaggio condotta dalla fine degli anni ’70, tant’è che nel noto progetto Viaggio in Italia, curato da Luigi Ghirri, il colore era predominante e non certo perchè non ci fossero autori che continuavano a lavorare col b/n.

LS: Il rapporto con la luce nella tua fotografia, è un rapporto che si è modificato nel tempo, oppure è rimasto costante?
GB:
Sì e no. La luce è stata come è normale nell’esperienza della fotografia, un elemento rivelatore. Uno dei miei primi lavori, quello raccolto e ricomposto nel libro Milano ritratti di fabbriche, è sicuramente legato a un modo speciale di utilizzo della luce. Prima che questo lavoro nascesse, avevo iniziato a esplorare le aree periferiche, con le fabbriche in disuso e i quartieri operai costruiti subito a ridosso. Ricordo la prima volta che entrai in una di queste fabbriche, ormai fatiscente, costruita con materiali grezzi che cedevano. I fasci di luce che provenivano da questi spiragli o dalle alte finestre, entrando in questo spazio, mettevano in evidenza, in successione, le diverse strutture che ne venivano investite. E tutto appariva come una grande scenografia, dove di volta in volta i vari elementi diventavano i personaggi principali che dialogavano con chi li osservava. Qui la luce è stata per me una rivelazione, un modo diverso di scoprire una realtà nascosta. Mi ricordo che nel 1978, fotografando un quartiere periferico a sud di Milano, in una giornata dal cielo terso, una luce netta, dolce, quasi sensuale, accarezzava gli edifici, proiettando ombre intense, ma non nerissime. Vedendo lo spazio reale come lo si vede tutti i giorni, e confrontandolo poi con le fotografie realizzate, ho notato con grande evidenza un salto di percezione.
Per parecchio tempo ho utilizzato questo tipo di luce come un dispositivo progettuale irrinunciabile. Poi quando mi sono immerso nella campagna fotografica sul paesaggio lungo la costa del nord della Francia per la Mission Photographique de la DATAR, qualcosa è cambiato. Ho lavorato in luoghi dove le condizioni meteorologiche subivano cambiamenti rapidissimi, per cui ho dovuto realizzare, dopo una resistenza iniziale, fotografie in qualsiasi condizione di luce: sole, pioggia, vento, notte, nebbia, ecc... In quella esperienza la luce è diventata per me non solo uno strumento per vedere, ma un soggetto da raccontare.
In un successivo lavoro realizzato a Milano tra il 1995-96, La città interrotta, la luce era talmente varia, livida e sorda come molte giornate milanesi invernali, che era come se fosse scomparsa l’energia narrativa della sua presenza: l’interesse si è spostato soprattutto sulla composizione dello spazio, sulla volumetria, sulla sua plasticità, accettando quel risultato complessivo di neutralità che l’assenza di luce forte contribuiva a mettere in primo piano. Questa condizione mi ha aiutato a identificarmi maggiormente con ciò che stavo fotografando, a cercare un dialogo con il luogo, come se fossi dentro lo spazio.

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Valencia, Spagna, 1998

LS: Parlando della tua esperienza a Trieste, ho avuto l’impressione che invece tu ricercassi una certa omogeneità di luce per avere un lavoro in qualche modo coerente. Nel tempo sei passato da una luce più contrastata ad una più morbida che elimina le differenze...
GB:
Sì è vero, un po’ come abbiamo appena detto. Se da una parte c’è una mia disposizione ad accettare luci diverse nelle mie fotografie, dall’altra c’è a volte la necessità, quando c’è poco tempo per eseguire un lavoro come si desidera, di rendere la variabilità meno evidente, per una questione di equilibrio e di coerenza. Questa scelta viene riconfermata al momento della stampa, con un controllo più morbido della tonalità, attenuando il contrasto. Per esempio, poiché non mi piace avere cieli nuvolosi e troppo enfatici, i toni vengono abbassati fino a dare più risalto alla composizione architettonica, al disegno e alla volumetria.
Anche il discorso sulla distanza è importante. Una distanza costante mi aiuta in un lavoro di confronto con l’architettura. È un aspetto su cui ho insistito molto in occasione del lavoro sulle Sezioni del paesaggio italiano, fatto con Stefano Boeri: probabilmente è questa esperienza, più di altre, che mi ha fatto acquisire la misura e la distanza come elemento progettuale molto importante. Se dovessi aggiungere una definizione sul mio lavoro, direi che mi sento un ‘fotografo urbano’ ma anche un ‘misuratore di spazi’. Misurare gli spazi significa cercare una distanza per stabilire un ‘giusto’ rapporto con la realtà.

LS: Sembra che la tua ricerca insista anche su elementi come il ‘tempo’ e il ‘metodo’...
GB:
All’inizio, come si può immaginare, avevo un atteggiamento onnivoro verso la fotografia. I fotografi che hanno influenzato maggiormente il mio lavoro sono Bern e Hilla Becher e Walker Evans. La metabolizzazione dell’opera di questi grandi maestri ha influenzato in profondità il mio lavoro. Penso che il primo progetto
Milano ritratti di fabbriche
nasca proprio dall’ammirazione e dal confronto tra l’ossessiva classificazione tipologica e presentazione seriale dei maestri tedeschi da una parte, e l’attenzione, il rispetto per il luogo e le persone, e lo sguardo equo di Evans dall’altra. Il fascino verso la serialità, verso un progetto combinatorio delle immagini, è spesso collegato alla costruzione di un libro fotografico. Per me il libro fa parte del progetto generale, come se fosse una necessità narrativa ma anche complessiva e definitiva del mio lavoro.

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Resti del tempio del dio Canope, Villa Adriana a Tivoli, 2010

LS: Parlami del tuo ultimo lavoro, quello sul tuo ritorno a Beirut, dove stranamente tutti rimangono sorpresi nel vedere che hai incluso anche delle fotografie a colori...
GB:
L’uso del colore in quella situazione è stato una casualità. La prima volta che sono stato a Beirut, per varie ragioni, ho dovuto prolungare la mia permanenza. Avevo finito i film bianco e nero e visto che avevo delle confezioni di pellicola piana di negativo colore, le ho utilizzate un po’ perché mi interessava come esperimento e un po’ perché sarebbe potuto servire per possibili pubblicazioni. Poi al ritorno, ho messo tutto in archivio. Dopo 12 anni, quando sono tornato a Beirut su incarico di una rivista che voleva raccontare l’imponente ricostruzione di questa città distrutta dalla guerra, mi è stato chiesto di tornare in alcuni dei luoghi che avevo fotografato nel ’91, e cercare di ripetere l’inquadratura dallo stesso punto di ripresa per leggere le modificazioni dell’architettura.
Ma tornare lì, rivedere le persone, i luoghi e constatare che la Beirut del ’91 era rimasta nella memoria come qualcosa di incancellabile, anche se doloroso, mi ha fatto riaprire l’archivio per cercare quelle immagini che nella loro totalità quasi non ricordavo più. Ghirri diceva una cosa molto interessante: “spesso i fotografi italiani non sanno lavorare sull’archivio: sono ossessionati dalla produzione e dimenticano quello che è stato fatto”. Se guardiamo con attenzione quello che è sedimentato nel tempo, il racconto della realtà si ricompone ogni volta anche in modo diverso. È incredibile. Ritrovi in ciò che hai fatto nuove chiavi di lettura. Anche quando in un progetto, come per esempio quello di un libro o di una mostra retrospettivi, si riparte dal passato, per costruire una storia di tanti anni di fotografia, magari al di fuori della cronologia o della tipologia del soggetto. Nel rimescolare i singoli tasselli di questo mosaico, nuovi contenuti vengono ricomposti perchè la distanza del tempo ci aiuta a leggere meglio il passato. Il colore, nel lavoro di Beirut, non è molto diverso dal bianconero, poiché riflette e interpreta la componente fortemente monocromatica del paesaggio urbano.

LS: Lavori spesso nelle aree urbane di frangia dove la città non è più tale, dove i fenomeni di sviluppo sono in embrione e spesso contraddittori. C’è chi intravede nelle tue foto una sorta di ricomposizione dignitosa di questi luoghi, mentre io trovo in fondo l’uso del bianco e nero in questi casi, molto attutito nei toni, come qualcosa che invece di mettere in gioco le differenze, evidenziandole, in qualche maniera le appiattisce, rendendo tutto composto...
GB:
Nel costruire le mie immagini urbane, sicuramente resto fedele a una rappresentazione prospettica, perché cerco dei punti di vista e dei punti di fuga, e quando mi sembra giusto cerco di dare profondità allo spazio. In questo atteggiamento c’è sicuramente bisogno di relazionarsi alla storia.
È come se la visione prospettica si appellasse alla forza narrativa della storia. Quando la città, come spesso accade, è caotica, quando tutto lo spazio viene occupato e sovrapposto e diventa come inespugnabile, provi come un senso di smarrimento. Ma anche in questo caso il tuo compito è quello di dare una funzionalità estetica a quello che stai vedendo, perchè così facendo hai la sensazione di recuperare il senso perduto delle cose. Come se il rettangolo della fotografia che tu sovrapponi allo spazio cercasse di ritrovare un principio di leggibilità, una sorta di nuovo ordine.

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Beirut, 1991

LS: Quando componi un’inquadratura ti preoccupi più della parte centrale o dai importanza anche ai bordi?
GB:
Dipende. Cerco di essere il più speculare possibile nei confronti della realtà, nel rispetto di una visione documentaria e descrittiva, ma la cosa importante è riuscire a costruire un rapporto dialettico. Paradossalmente l’effetto di centralità lo puoi ottenere svuotando il centro e spostando l’equilibrio sui bordi dell’immagine.

LS: Ti interessa un’inquadratura molto ampia, però ho notato che spesso tagli gli edifici in maniera apparentemente casuale, in alto, come dire: quello che posso vedere è tutto qui, esiste comunque il resto...
GB:
Il taglio è una cosa fondamentale della composizione, uno strumento per progettare. A volte con un taglio forte sembra di vedere meno, ma in realtà si vede di più, nel senso che si vede in modo più circoscritto ciò che prima forse era disperso in un campo più largo. Molti fotografi e molti architetti fanno un grande uso di grandangolari estremi, cercando di mettere più informazioni possibili in un’unica ripresa fotografica. Il risultato è spesso una sorta di miniaturizzazione dell’architettura, oltretutto con qualche rischio di deformazione.

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Beirut, 1991

LS: Qual è il lavoro che rappresenta meglio la tua ricerca, nel quale ti riconosci di più?
GB:
A volte penso di produrre un unico lavoro continuo senza fine, come se da oltre venti anni facessi sempre le stesse fotografie. Sicuramente il lavoro che più mi ha emozionato è la campagna di Beirut del ’91, alla fine della guerra. È stato forse un lavoro più breve di altri, ma molto intenso anche per il significato simbolico che queste fotografie volevano avere e forse hanno avuto. Sono anche molto legato alla lunga esperienza del lavoro realizzato all’interno della Mission Photographique de la DATAR dell’ 84-85, che ha rappresentato una svolta importante del mio modo di lavorare e che mi ha fatto conquistare un rapporto con il paesaggio che prima di quel periodo non avevo mai affrontato.

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Ault, Francia, 1985

*Intervista tratta dalla rivista "Around Photography" n. 2 (luglio-settembre 2004)