CONVERSAZIONE CON MARIO CRESCI a cura di Anna Lovecchio

Direttamente dal catalogo “Vintage”, recentemente pubblicato dall’Editrice Quinlan, abbiamo estrapolato alcuni passaggi di un’intervista a Mario Cresci...

pubblicato il 5 dicembre 2008
Anna Lovecchio: La dimensione esistenziale del ritorno è a te molto cara e “ritorna” ciclicamente nel tuo lavoro. Lo stesso workshop che hai organizzato in occasione della tua recente retrospettiva alla GAM di Torino si intitolava “La fotografia: vedere è rivedere”. Una volta hai dichiarato che “la foto a distanza di tempo assume significati diversi anche per lo stesso autore che l’ha realizzata. Cambia il senso dell’immagine e aumentano le opportunità di rivederla sotto altri aspetti in un continuo mutamento di senso.” Quale mutamento di senso hai percepito nel rivedere le immagini e le stampe originali del lavoro incluso in “Vintage”?
Mario Cresci: Quando si è giovani non si pensa a “rivedere” perché si è portati a “vedere” che è sinonimo di curiosità nel percepire un pluriverso di saperi, senza i quali non può nascere nulla che abbia una benché minima legittimazione artistica. Negli anni Settanta, dopo gli studi di design a Venezia, ho iniziato a vivere in Basilicata, prima a Tricarico e poi a Matera. Lì ho preso coscienza di quella “linea d’ombra” che separava, e ancora oggi separa, il Pensiero meridiano da quello Padano. Al design industriale che avevo studiato al Nord era subentrata una nuova interfaccia comunicativa che, in alternativa al sapere scientifico, mi poneva all’interno delle relazioni umane e fuori da finalità speculative e produttive.
Negli anni lucani e pugliesi il mio rapporto con il tempo della memoria attraverso la fotografia era particolarmente intenso. Era come se avessi trovato nella natura, nelle cose e nelle storie narrate dalle persone, quella parte mancante di me stesso.
L’inizio risale all’estate del 1967 a Tricarico, in Basilicata. Tra le tante storie me n’è rimasta impressa una in particolare, attinente al senso della memoria in fotografia. La narratrice si chiamava zia Rosina, una delle più brave “guaritrici” del paese. Mi raccontò di una sua amica che aveva il marito emigrato da molti anni negli Stati Uniti e che per mantenere il contatto con il marito, si faceva fotografare insieme ai figli, come nelle vecchie cartoline dell’Ottocento, da un fotografo ambulante. In ogni posa voleva che il fotografo lasciasse uno spazio bianco vicino alla sua figura che era al centro della scena, mentre i figli erano sempre in piedi accanto a lei. La stampa fotografica, formato cartolina, veniva spedita al destinatario. Giunta a destinazione, il marito incollava il suo ritratto nello spazio bianco lasciato vuoto e rispediva la fotografia alla moglie, compiendo in questo modo uno struggente rituale creativo che si ripeteva due o tre volte l’anno. A distanza di molti anni penso che una storia come questa sia fortemente emblematica del mio lavoro fotografico anche in relazione alla serie dei “Ritratti reali” in cui la fotografia tenuta in mano da un componente della famiglia, a sua volta fotografato, vuole essere una riflessione sulla memoria evocata dalla compresenza di due immagini in una: la fotografia nella fotografia, come avviene tra due specchi frontali che trasformano il tempo della realtà in un tempo infinito senza limiti.
“Vedere é rivedere” è un pensiero analogo al “da cosa nasce cosa” di Bruno Munari, relativo al rapporto tra il pensiero e l’oggetto pensato. Quest’ultimo rimanda a un altro pensiero e a un altro oggetto e così via: non esiste mai fine, non esiste un’opera chiusa ma l’opera aperta e questo vale anche per le immagini fotografiche, indici o impronte del reale che siano. Penso anche al vecchio Cézanne quando in una lettera al figlio scriveva che gli bastava spostare lo sguardo leggermente a destra o a sinistra per vedere e rivedere più volte il monte Saint Victoire modificarsi sotto i suoi occhi. Per quanto mi riguarda, rivedo e ripenso a ciò che è stata la mia vita e la mia produzione artistica attraverso le icone della fotografia e non solo. Rivedo e ripenso perché mi piace considerare il mio lavoro d’autore nello stesso modo con cui ritrovo l’esperienza vissuta. E, soprattutto, non riuscirei a fare nulla se non avessi sempre considerato gli “altri” come parte integrante e sostanziale del mio lavoro. Senza la partecipazione riconosciuta dei miei referenti non potrei vedere, rivedere o rileggere ciò che ho fatto anche in senso etico, oltre che estetico, perché considero l’artista una figura privilegiata in grado di produrre e comunicare valori o anche disvalori, maturati insieme agli altri, depositari di quell’ immaginario collettivo che è sempre alla base di ogni idea che vuole essere comunicata.

AL: L’incontenibile George Bataille diceva: “il Progetto è la prigione da cui voglio uscire”. Per te, invece, la progettualità sembra essere l’esatto contrario. Il tuo approccio progettuale all’arte costituisce un sistema per uscire dalla prigione dell’oggetto, per allungare la portata del tuo lavoro e dilatare il respiro delle tue opere estendendole al prima, al dopo e a tutto quello che orbita intorno agli spazi della rappresentazione. Puoi spiegarmi come si articola la progettualità nella tua pratica artistica e quale ruolo essa riveste nella tua poetica?
MC: Bataille, era a modo suo un “santo dissacratore”. Credo che, per lui, l’idea di progetto inteso come prigione fosse profondamente legata al desiderio di smontare il senso del sacro inteso come religione imposta alle persone con le sue regole, gli obblighi, la paura, la penitenza. In questo senso non mi sento molto distante da Bataille. La parola “progetto” è spesso fraintesa in ambito artistico con una progettualità pensata a priori seguendo modalità acquisite e consolidate che possono regimentare o irrigidire il processo creativo. Ho sempre lasciato che il mio desiderio di progettualità si misurasse con l’emozione del prevedere un atto creativo di cui non si conosce il risultato e la regola della conoscenza delle cose. In tal senso intuizione e improvvisazione si coniugano con la razionalità, un modo di pensare che ho acquisito nella scuola di design di Venezia.
Sono convinto inoltre, che il valore della progettualità non risieda solo nell’evidenza dell’opera compiuta, quanto invece nei percorsi di ideazione e di realizzazione che l’hanno formata. Mi piace pensare che l’arte corrisponda pienamente alla vita di chi la produce, ma anche di coloro che indirettamente o direttamente ne hanno fatto parte.

AL: Quali sono, secondo te, le più interessanti linee di ricerca artistica oggi?
MC: Quelle degli artisti che sanno guardare la storia dell’arte senza pregiudizi, che hanno la consapevolezza di non essere “l’ombelico del mondo” e senso dell’ironia nel non prendersi troppo sul serio.
Quelle degli artisti che riescono a parlare tra di loro perché ritengono che l’arte sia un linguaggio che accomuna e non divide le persone, coltivando una vena di anarchia e un grande senso di libertà espresso nelle loro opere, ma anche nella loro capacità di gestirle e di relazionarle in contesti culturali dove non esiste solo il problema della vendita.
Quelle dei galleristi che non dicono ai loro artisti cosa che devono fare per accontentare il mercato.
Quelle dei giovani artisti il cui lavoro passa inosservato per mancanza di attenzione e di comprensione delle loro poetiche perché, anche se questo non interessa o interessa poco ai critici paludati, le idee e le opere dei giovani sono, a volte, di gran lunga più interessanti di quelle dei maestri.

L’intervista completa da cui sono stati estrapolati questi brevi passaggi è pubblicata sul catalogo “Vintage” che è reperibile nelle migliori librerie, o nella sezione acquista on line di questo sito.
La pubblicazione, edita dall’Editrice Quinlan, contiene fotografie di Luigi Ghirri, Mario Cresci, Gianni Leone, Beppe Gernone e Angela Cioce, accompagnate da scritti di Mario Cresci, Paola Ghirri, Anna Lovecchio, Anna D’Elia, Berardo Celati e Enzo Velati
.

FOTO 1 > Copertina del catalogo VINTAGE
FOTO 2 > MARIO CRESCI, Misurazioni, 1977
FOTO 3 > MARIO CRESCI, I grandi esclusi, 1978