ARTICOLI > NUMERO 01 > APRILE/GIUGNO 2004
WENG FEN di Stefano Pirovano

Ansia di conquista e smarrimento nello sguardo di un testimone oculare. modelli, sogni e illusioni di un mondo che scopre il lato oscuro dell’occidente.

photo È strano osservare come il processo di apertura politica e culturale della Cina abbia coinciso nel panorama artistico di questo paese con un repentino allineamento agli standard occidentali. Ci si aspetterebbe un cambiamento lento, nel solco di una tradizione millenaria, eppure quello che è avvenuto negli anni Novanta è piuttosto una frattura netta con il passato. Quasi come se l’arte cinese di oggi fosse frutto di un’evoluzione avvenuta altrove. Forse quest’idea prende corpo nell’osservatore occidentale a causa del digiuno mediatico a cui il governo cinese lo ha costretto per molti anni, o forse si tratta di una precisa strategia mirata a dare un’immagine più dinamica e democratica di un paese che continua a sfuggirci. Difficile da dire, fatto sta che ora gli artisti cinesi operano con mezzi e metodi del tutto simili a quelli occidentali, dando prova di aver saputo rapidamente colmare il divario, se di divario si può parlare. Dai primi anni Novanta l’arte cinese si è rapidamente aperta al mercato globale, un mercato che ha regole cui gli artisti hanno voluto adattarsi quasi senza riserve. Tanto che oggi la loro presenza nelle più importanti rassegne mondiali è costante e molti di loro sono entrati a far parte a tutti gli effetti del grande circuito internazionale. Weng Fen, classe 1961, residente nell’isola di Hainan, nel sud del Paese, è uno di questi.
Se è vero, come ha ben sottolineato Barbara Pollack1, che il problema della censura non è ancora stato risolto del tutto e che la fotografia è tra i mezzi più soggetti all’intervento governativo, il lavoro di Fen viene ad assumere un valore ben più forte di quello che a un primo sguardo può sembrare. Mi riferisco in particolar modo alle serie On the wall (2001-2002) e a Bird’s eye view (2002). Non si tratta semplicemente dello smarrito sguardo di una generazione verso qualcosa che sta crescendo sotto i loro occhi indipendentemente dalla loro volontà. C’è di più. È un’opera d’altri tempi, politica nella stessa misura in cui poteva esserlo “La libertà guida il popolo” di Delacroix dopo le Tre Gloriose di Parigi. Solo che qui non c’è la fierezza di un popolo che lotta per difendere i propri diritti, ma piuttosto lo sconforto di chi ha vissuto un cambiamento epocale tanto atteso e ora si sente deluso dal risultato. Della Cina demaoizzata da Deng Xiaoping, poi uscita dalla brutale repressione di Piazza Tiananmen, Weng Fen sembra evocare il delitto compiuto nei confronti della storia e delle tradizioni civili, in ragione di un sogno che per la plus part si è dimostrato essere ben diverso dalle aspettative. Un sogno imposto dall’alto, dove l’essere umano è alienato dalla propria identità in ragione della logica del profitto – una cosa che ogni italiano può facilmente verificare negli scantinati di molte città del nostro nord. Il risultato sono le Family aspirations, opere che molto hanno assorbito della disillusione occidentale e che sono per certi versi avvicinabili a lavori di artisti che vivono altrove, nello stesso sistema, e che da tempo ne hanno individuato le controindicazioni. Come Urs Luthi o Duan Hanson ad esempio. Forse la ricercatezza estetica delle immagini, il lucore tecnologico di certi cieli e la presenza di una natura soffocata sono la maschera sotto la quale cercare un messaggio di più ampia portata. Non è un caso che le stesse sensazioni si possano trovar espresse, in forma diversa, in fotografi come Rong Rong e Liu Zheng. Se l’erotismo del giapponese Araki mette a nudo i mostri di un popolo superprogredito, ma saldamente ancorato alle proprie tradizioni, l’ironia di Fen estetizza il tragico risveglio di un mondo che ha voluto dimenticare troppo in fretta. Eppure, per quanto Fen si dichiari consapevole di questa perdita e sussurri la sua delusione attraverso i pensieri di fanciulle senza volto (quindi, di nuovo, private dell’identità), i suoi lavori risultano accuratamente depurati di ogni orientalismo. I codici visivi che nella cultura occidentale sono penetrati alla fine dell’Ottocento affascinando artisti e architetti, sembrano scomparsi o almeno occultati sotto una patina cinematografica da villaggio globale. La chinoiserie oggi non è l’immagine di un paese lontano, ricco di mistero e di attrattiva, dove proiettare il nostro pensiero alla scoperta di nuova conoscenza, né un ricordo nostalgico della politica dei cento fiori da trasformare in icona. E’ semmai la constatazione che certi difetti dell’economia di mercato, certe inefficienze del capitalismo provocano gli stessi identici risultati ovunque. Verrebbe voglia di rispolverare il vecchio concetto di kulturkampf per dare ragione di un legittimo atteggiamento protettivo nei confronti dei valori culturali afferenti a un unico popolo, nei quali lo stesso popolo riconosce la propria identità. Fen sembra ribadire il concetto, se ve ne fosse bisogno, che i centri commerciali sono uguali in tutto il pianeta, che il fast food ha lo stesso sapore ovunque, ma che non è ancora stata scoperta né una forma globale di benessere, né una formula universale per la felicità. Con le dovute differenze i cattolici di allora sono i globalizzatori di oggi. Questo però non significa immobilità culturale, preservazione incondizionata dello status quo, ottusità nazionalista. Lo dimostrano le performance dei tardi anni Novanta, dove Fen, travestito da ufficiale governativo, premiava con pomposa cerimonia i vincitori di un’improbabile gara di nuoto, con tanto di medaglie e sponsorizzazione occidentale (Coca Cola). Solo che i nuotatori erano irrimediabilmente nudi, molto ridicoli davanti a tanta formalità.
Emerge così anche il problema della condizione femminile, indice più di altri dell’effettivo progresso civile di qualsiasi società. In Nine wishes of Chinese Family lo spettro dell’emarginazione è lontano, in effetti, ed è piuttosto il senso di ironia verso modelli comportamentali culturalmente estranei ad essere presente. Tuttavia è proprio di quest’ironia che la donna rimane prigioniera, costretta ancora una volta ad un ruolo, lo stesso di sempre. L’unità sociale non cambia nonostante tutto. Quello che viene messo in scena ed esposto al ridicolo è la metodica determinazione del Fen attore del suo stesso spettacolo nell’interpretare desideri altrui. Come se, in definitiva, anche l’artista cadesse vittima degli stessi imperativi che la società dei consumi impone. E’ forse qui più che altrove che si misura la distanza tra chi ha partorito questo sistema e chi l’ha importato adattandolo: i modelli occidentali sono molto più subdoli. Un Fen europeo mostrerebbe probabilmente prototipi più accattivanti, magari del tipo di quelli che siamo abituati a vedere sulle riviste di moda e che qualche volta ancora riescono a nascondere l’inganno – ogni consumatore, si sa, ha il suo punto debole. In Europa l’esperienza dell’assolutismo è stata metabolizzata al punto che certe immagini hanno perso potere e certi contrasti non sono più così evidenti. Ma interpretare il presente è cosa assai difficile quando lo si sta vivendo, quindi non resta che provare a prender la giusta distanza dalle cose e guardare con gli occhi della bambina al di là del muro.

FOTO 1 > On the wall: Haikou, 2002
FOTO 2 > In faction, 2002
FOTO 3 > Bird's eye view: Shenzhen, 2002